Forse c’era da aspettarselo che un certo revisionismo avrebbe sfiorato le corde di una chitarra. Riscrivere la storia della musica italiana dell’ultimo mezzo secolo è un prurito difficile da trattenere, in un Paese che abbandona la memoria con la stessa facilità con la quale lascia un cane in autostrada prima della vacanza.

Nel tritarifiuti salottiero di un’estate grigia questa volta – ma non si preoccupi, è in buona e assolutamente eccelsa compagnia – è finito Fabrizio De André, Faber per gli amici, un poeta che ci ha lasciati quando aveva 58 anni e ancora molte storie da raccontare. Il sasso, manco a dirlo, lo lancia Rolling Stone, magazine nato con la voglia matta di replicare la versione statunitense senza mai riuscirci. Colpevole di una beatitudine da lui non voluta, visto che se n’è andato del 1999, e di una vita sregolata, l’alcol, il sequestro di persona, la famiglia alto borghese dalla quale proveniva.

E per un servizio che Rolling Stone scaglia, c’è un autorevole critico che raccoglie: Luca Beatrice, già critico d’arte contemporanea e curatore, per volontà dell’allora ministro Sandro Bondi, del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia del 2009.

Torinese di nascita, brillante per vocazione, oltre a vantare una collaborazione fatta di stima reciproca con Vittorio Sgarbi, tra le innumerevoli attività, compresa la collaborazione per il giornale Hurrà Juventus, Beatrice scrive anche per il Giornale. E dalle colonne del Giornale, grazie all’assist di Rolling Stone, Beatrice demolisce De André, un “altezzoso” De Gregori, quell’avvelenato di Guccini e il “sopravvalutato” Vecchioni, a favore di un troppo presto dimenticato Lucio Battisti, quello che “senza cantare dal vivo e senza l’appoggio dei critici”, dunque della sinistra, ovvio, ha venduto più di tutti.

Probabile che sia vero: la critica non ha mai amato Battisti. E Battisti non ha mai suonato dal vivo perché accusato di aver finanziato gruppi politici di estrema destra. Sono stati anche questi gli anni Settanta. Ma non ne è di certo passato indenne l’altezzoso De Gregori, processato da un gruppo di autonomi durante un concerto dal quale stentò a riprendersi per qualche anno, né De André che già nel 1969 non piacque quando riscrisse con la Buona Novella la storia di Gesù di Nazareth attraverso i Vangeli apocrifi. “Noi andiamo a fare la rivoluzione e tu ci vieni a dare lezioni di teologia”, si sentiva dire con toni non certo aperti a chiarificazioni.

Ma i revisionisti una cosa dimenticano: Battisti era Mogol, e quando finì il sodalizio non ci regalò più niente. De André era Faber, uno che da Spoon River, tradotto insieme a Fernanda Pivano, è arrivato a Creuza de ma, in dialetto genovese, la mulattiera del mare che è riuscita a raccontare il Mediterraneo e i suoi popoli marginali e che ti entrano nella pelle come la più forte delle libecciate.

Fortuna che proprio attraverso il Giornale per anni, pre e post mortem, abbiamo capito chi era davvero Faber, grazie a un signor giornalista che porta il nome di Cesare G. Romana che è l’unico biografo riconosciuto non solo di De André, ma anche di quella generazione che comprende trent’anni di musica italiana che porta i nomi di Umberto Bindi, Piero Ciampi, Lucio Dalla, Gino Paoli. “Lo conobbi nel 1964. Aveva appena scritto la Canzone di Marinella”, scriveva Romana, “mi disse che parlava di una ragazza di vita annegata da un delinquente. Me la lesse. Mi aspettavo una pagina di cronaca nera e trovai una favola partita tra i fiordalisi e finita tra le stelle. Gli dissi: credo che lei sia un genio, ma di dischi ne venderà pochi” Azzeccai solo la prima parte della frase”.

Probabilmente l’avrebbe azzeccata anche in quel lontano 1964 Romana, se una voce miracolosa non avesse preso la Canzone di Marinella e trasformata, come soltanto la voce di Mina riesce a fare.

Nel luglio del 2011, invece, Beatrice, l’attuale critico culturale del Giornale, attacca così il suo mini pamphlet: “Ci sono voluti oltre quarant’anni per infrangere uno dei più granitici tabù del sistema musicale italiano: Fabrizio De André non è il mito che ci hanno fatto credere dopo la morte, ma un uomo pieno di contraddizioni, protagonista certo della scena cantautorale degli anni Settanta, ma tutto sommato con ben poca originalità. Un sopravvalutato, insomma”.

Con il beneplacito di Luca Antonelli di Rolling Stone, Beatrice, novello Woody Allen alla Manhattan, allunga la lista dei sopravvalutati. Una lista che in quel film comprendeva comicamente e per bocca di Diane Keaton Van Gogh, Beethoven, Mahler, Francis Scott Fitzgerald, Ingmar Bergman.

L’idea della demolizione postuma, che va a stuzzicare anche tutte le derivazioni celebrative commerciali e mediatiche di Faber, in alcuni casi ampiamente discutibili, sa tanto di ripicca e di vendetta, di quel gesto da oppresso della domenica come il Fantozzi che esasperato dalla Corazzata Potemkin si sente finalmente in grado di ribellarsi: “è una cagata pazzesca”.

Eppure De André non era Ejzenstejn. O almeno non ha rappresentato un élite della canzone d’autore nei termini in cui la vuole porre Beatrice. La sua poetica e la sua musica sono state amate, e prima di tutto acquistate, da un numero sempre più consistente di ascoltatori. De André è stato nazionalpopolare nelle vendite, come lo sono stati Guccini e De Gregori, Dalla e Battisti. Pezzi consistenti, “affari”, del business italico della musica, l’industria italiana del cantautorato di cui ancora oggi, e per fortuna, riceviamo l’ombra lunga in termini compositivi e melodici.

Se poi si passa alle contraddizioni, le stigmate della colpa di una vita sregolata e dissennata, ma col culo parato del babbo ricco, accusa infamante per il duo Beatrice/Antonelli, ci si perde davvero in un bicchier d’acqua. L’invidia del duo revisionista si quintuplica proporzionalmente alla stima, al rispetto e all’affetto che Faber ha suscitato e trascinato con sé soprattutto dopo la morte.

Una vicinanza di cuore e di pancia, di anima e di spirito che un Battisti, per esempio, non è riuscito a creare né in vita né da morto. E non ci si può mettere lì col bisturi o col manuale semplificato della destra contro la sinistra per comprenderne i motivi.

Il sentimento sincero di umanità che il De André post mortem ha provocato spontaneamente nelle gente, nel popolo, non può essere trascinato nel fango di una polemica rancorosa. Quel sentimento esiste e resiste, magari da qualcuno cavalcato e gonfiato per un prime time televisivo, ma c’è. Un voler bene limpido e puro come lo si vorrebbe ad un fratello maggiore o a un papà che si è fatto gli affaracci suoi suoi regalandoti la libertà di sognare ed amare attraverso gli accordi di una chitarra.

Andare oltre sarebbe un’esagerazione. E parlando di De André, noi che ci ostiniamo a considerarci orfani della sua voce e delle sue parole, rischieremmo di esagerare. Quello che ci ha lasciato in eredità ci basta e avanza. Siamo sicuri che ci avrebbe detto ancora molte cose, ci avrebbe raccontato di strade inesplorate dagli uomini e da Dio. Ci accontentiamo, lo ringraziamo ancora per l’eredità e continueremo a celebrarlo. Nonostante fosse borghese, scavato dall’alcol, mangiato nella vita da un sequestro di persona. De André ci ha emozionato, è stato con noi, nei nostri viaggi, coi nostri amori, in una musicassetta o in un I Pod, lui c’è sempre stato. E continuerà a esserci.

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