La notizia non è di quelle clamorose, comunque potrebbe essere un segno dei tempi; che induce a sperare nella riscoperta del buon senso: stufo dell’Italia, l’economista Michele Boldrin sbaracca le tende e toglie il disturbo. Se ne tornerà nell’America delle grandi pianure, a cui tanto piacciono le banalizzazioni militarizzate.
Ne ha dato solenne annuncio il 12 giugno scorso su NoiseFromAmeriKa; il sito che funge da collegamento della consorteria tra il carbonaro e l’iniziatico dei liberisti/mercatisti espatriati nel Paese delle Opportunità; quell’America che sembra aver perso il treno delle opportunità anche grazie alle sbornie liberiste/mercatiste: «L’Italia mi sembra sempre di più in preda ad una degenerazione inarrestabile. Nonostante voglia ancora un certo bene al Bel Paese e, a molti, io appaia spesso come un Don Quijote in realtà non provo alcun piacere nel girare a vuoto. Non nego di aver perseguito molto spesso obiettivi anomali per l’opinione dominante: l’ho fatto. Ma in media non li ho solo perseguiti, li ho anche raggiunti. Con questa Italia ho l’impressione di star girando a vuoto. Occorre fare quindi, io credo, una riflessione seria su come riuscire ad influire davvero sul dibattito pubblico in Italia. Oppure lasciar stare».
Probabilmente si era reso conto che gli ideologi maldestri della svolta neoconservatrice ormai hanno rotto. O meglio, sono diventati imbarazzanti persino per quanti si erano lasciati infinocchiare dalle loro teorizzazioni all’insegna dell’economia-vudù: le Mani Invisibili, il mercato che si autoregola, privato è bello… Tutto quell’armamentario a pensiero unico che – nel migliore dei casi – faceva perdere tempo; in quelli peggiori (che sono la stragrande maggioranza) produceva disastri. Anche se i fondamentalisti del mercato, obnubilati da una fede gesuiticamente perinde ac cadaver, non se ne sono mai resi conto. Mai questi presuntuosi maldestri (ovvio, quelli in buona fede) ammetterebbero di essere stati strumentalizzati dai soliti baroni ladroni. Per cui le privatizzazioni si sono risolte nella svendita dell’argenteria di casa, intesa come patrimonio pubblico (l’acqua, la telefonia, l’Alitalia, ecc.). Per cui trasformare le famiglie nel valutatore finale della qualità didattica attraverso l’ipotizzato meccanismo del ticket voleva dire liquidare la scuola pubblica a vantaggio di quella privata, in mano a organizzazioni affaristiche di matrice religiosa tipo CL. Per cui l’aziendalizzazione di ogni anfratto della società non è una nuova frontiera dell’efficienza (la bubbola che siamo tutti “clienti”) ma solo un drammatico impoverimento civile.
Con Boldrin getta la spugna uno dei più chiassosi e muscolari propugnatori del pensiero economico a fumetti che ha ridotto la nostra società a un “manga” (i comici sanguinolenti giapponesi), sempre a danno delle categorie più deboli. Segno di speranza per il ritorno all’idea che soltanto le politiche pubbliche democratiche sono lo strumento per mettere sotto controllo gli spiriti animali del Capitalismo, riqualificare un sistema produttivo prosciugato dalle rendite manageriali e dalle pavidità padronali, operare un minimo di redistribuzione rivolta all’equità. Ma non ci si libera dalla genia dei liberisti/mercatisti limitandosi al “patavin fuggiasco”. I corridoi dell’Accademia e del Potere sono affollati di turibolanti delle fumisterie neolib, solo che si fanno notare meno perché parlano sottovoce e indossano le divise d’ordinanza sui toni del grigio: i soliti Brambilla che hanno sciacquato i panni nel Potomac. Come il Francesco Giavazzi, che sul primo numero della rivista Il Mulino di quest’anno discuteva con Romano Prodi di modelli economici ottimali.
Macché Germania o Finlandia, sempre il solito Capitalismo Made in Usa. Perché avrebbe il suo punto di forza nell’innovazione («effetto fortunato – sentenzia il Giavazzi – della contaminazione fra ricerca universitaria e finanza»). Non gli passa neanche per l’anticamera del cervello che la declinante egemonia stelle-e-strisce si basa su ben altra contaminazione: quella tra finanza e apparato bellico.