Dopo tre anni si chiude il processo alla 25enne americana accusata di aver ammazzato la figlioletta Caylee. I giudici la ritengono innocente anche se le versioni emerse in questi anni sono molto contraddittorie. In molti sono convinti che la donna sia colpevole
Casey Anthony è innocente. Con questo verdetto si conclude il caso che ha dominato per tre anni giornali e televisioni americani, che ha fatto stazionare per ore e ore un pubblico di curiosi davanti alla corte di Orlando, sede del processo, e ha trasformato la casa della presunta assassina in una delle più popolari mete turistiche della Florida. La venticinquenne Casey, che alla lettura della sentenza ha prima respirato pesantemente scoppiando poi in un pianto liberatorio, è stata giudicata colpevole di aver mentito alla polizia, ma non di aver ucciso la figlioletta Caylee. La ragazza potrebbe essere rilasciata nelle prossime ore.
“Un altro caso O. J. Simpson”, ha scritto il “Los Angeles Times”, per definire questo nuovo feuilleton giudiziario. In effetti, il processo a Casey Anthony resterà nella storia come uno dei più impressionanti spaccati di vita e società americana. Famiglia, incesto, omicidio, maltrattamento infantile, disperazione giovanile, sesso, menzogna sono gli elementi che hanno acceso l’interesse di un intero Paese, che alla lettura della sentenza si è diviso, come nel passato, tra colpevolisti e innocentisti. Una folla di alcune centinaia di persone staziona in queste ore fuori della casa di Casey, a Orlando. Molti urlano la loro rabbia contro la ragazza, definita “un’assassina di bambini”.
La storia inizia il 15 luglio 2008, quando Cindy Anthony chiama il 911 della polizia di Orlando e spiega che Caylee, la nipotina di tre anni, è sparita dalla circolazione da 31 giorni. Cindy ha più volte chiesto alla figlia Casey di vedere la bambina. Ma Casey, che ha partorito Caylee senza sapere chi sia il padre, tergiversa e rimanda l’incontro. Dice di essere troppo occupata con un nuovo lavoro a Tampa e che Caylee vive con una tata. All’operatore della polizia di Orlando, nonna Cindy dice di non credere alla versione della figlia. La sua voce si fa sempre più ansiosa, e disperata, mentre racconta di aver trovato la macchina di Casey e di aver sentito, fuoriuscire dal baule della macchina un inconfondibile odore di cadavere.
La polizia della Florida inizia immediatamente le indagini. Di Caylee, nessuna traccia. Casey racconta che la figlia è stata rapita dalla tata, di nome Zanny. Ma non spiega perché non abbia denunciato la sparizione, né riesce a dare dettagli certi sull’identità di Zanny (che, si scoprirà più tardi, non esiste). La versione della ragazza fa acqua da tutte le parti. In un primo tempo racconta di lavorare per gli Universal Studios, ma quando gli investigatori la conducono negli studi televisivi, e le chiedono di mostrare il suo ufficio, la ragazza ritratta e dice di essere stata licenziata anni prima. Dal suo passato emergono storie di contraffazione di carte di credito e assegni. In mano agli investigatori arrivano foto scattate quando la piccola Caylee è scomparsa da settimane. Ritraggono Casey che beve e festeggia con gli amici. Su un braccio la ragazza si fa tatuare tre parole in italiano: “La dolce vita”.
L’11 dicembre 2008, sei mesi dopo la scomparsa di Caylee, resti umani non identificati vengono ritrovati in un sacchetto di plastica sepolto nella foresta accanto alla casa degli Anthony. Si tratta, mostrano le analisi di laboratorio, di ciò che rimane del corpo di Caylee. Sul teschio ci sono ancora tracce di nastro adesivo. La bambina è stata probabilmente soffocata. Casey viene arrestata, e accusata di omicidio. Avrebbe ucciso la figlia “perché voleva essere libera di frequentare i night-clubs e trascorrere più tempo col suo nuovo ragazzo”. La Procura della Florida annuncia di voler chiedere la pena di morte per Casey.
Iniziano mesi di investigazioni, e la raccolta di 700 pagine di prove, che sembrano inchiodare la giovane madre. Analisi al laser, effettuate nella vettura di Casey, mostrano la presenza di elementi in decomposizione (le analisi non riescono però a confermare con certezza che si tratti di “decomposizione umana”. Gli avvocati di Casey hanno sempre sostenuto che nella macchina si trovavano sacchetti della spazzatura). Sul computer della ragazza vengono trovate ricerche Google con parole chiave come “cloroformio”, “morte”, “spezzare il collo”. Nel suo diario, alla data 21 giugno, Casey scrive: “Non ho rimpianti. Sono solo un po’ preoccupata”. Mentre l’accusa parla di omicidio, la difesa mette a punto la sua versione. Caylee sarebbe morta accidentalmente, cadendo nella piscina di casa. Casey, spaventata, avrebbe occultato il cadavere, aiutata dal padre. La ragazza sarebbe anche “mentalmente disturbata”, per le violenze sessuali cui è stata sottoposta nel passato, proprio a opera del padre e del fratello.
E’ con questo quadro che si apre, un mese fa, il processo. La frenesia attorno alla storia di Casey è tale che i 12 giurati sono tenuti reclusi in una località segreta e i loro nomi non vengono resi pubblici. La sentenza arriva dopo un solo giorno di camera di consiglio. Casey è giudicata colpevole di aver mentito alla polizia, ma non di aver ucciso la figlia. Rischia una condanna a un anno (già scontata nei due anni e mezzo di prigione fatti sinora). “Era difficile portare in aula prove definitive”, spiega ora il procuratore generale, adducendo i sei mesi trascorsi tra la scomparsa di Caylee e il ritrovamento del suo corpo. Nonostante il verdetto, l’opinione pubblica è spaccata tra colpevolisti (i più) e innocentisti. I grandi network smontano gli studi fuori della corte di Orlando. L’ennesima storia americana di sesso, morte e solitudine – tutta in famiglia – resta incompiuta.