Ci sono gli interessi delle grandi multinazionali indiane, cinesi, thailandesi ad alimentare il conflitto civile contro le minoranze etniche che dilania il Myanmar. Con i progetti di grandi opere infrastrutturali che il governo dell’ex Birmania ha avviato per incentivare lo sviluppo del paese ma anche per mortificare, in nome del progresso, le comunità indigene. Esemplare l’ultimo caso della diga e della centrale idroelettrica cinese sull’Irrawaddy, nel Nord del paese, che ha scatenato la reazione del popolo di etnia kachin: da qui la repressione militare su vasta scala, che include abusi e violenze sui civili, con metodi da “pulizia etnica”.
D’altro canto l’alto tasso di conflittualità interna, sostengono gli analisti, è una manna per i generali di Yangon, legittima il loro potere e il loro ruolo, che risulta così indispensabile per la tenuta della nazione e per la stabilità interna. Non per niente i generali non hanno mai cercato di tradurre in pratica l’accordo politico fondamentale raggiunto a metà degli anni ’90 con 17 eserciti riconducibili ad altrettante popolazioni indigene. Tale politica bellicista, inoltre, smentisce la origini stesse dell’Unione Birmana che nel 1947, in piena era post coloniale, nacque come stato federale, risultato della volontaria unione fra differenti gruppi etnici.
Sulla guerra intestina in Birmania, dunque, i giganti asiatici come Cina e India chiudono entrambi gli occhi, mentre l’Asean (l’Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico) resta immobile e silente in nome del principio di “non interferenza negli affari interni”. I governi delle nazioni confinanti puntano allo sviluppo economico regionale e alla costruzione di aree transfrontaliere di libero scambio (già ne esiste una con la Thailandia). Finanziano progetti su vasta scala, soprattutto per l’approvvigionamento energetico, come dighe, oleodotti, gasdotti, raffinerie, industrie. Il “mercato energetico integrato” nel Sudest asiatico, promosso all’interno dell’Asean, conta molto sui territori birmani, ricchi di risorse: e molti di tali progetti toccano territori delle minoranze etniche, con un forte impatto sulle comunità locali. L’insensibilità del governo birmano alla tutela sociale ed economica di tali comunità, secondo un cliché che puntualmente si ripete, innesca l’insorgenza della guerriglia, sfociando nella conseguente repressione militare.
Sui rapporti di India e Cina con Yangon pesano diversi fattori. Negli ultimi trent’anni l’India è stata una tradizionale sostenitrice delle spinte democratiche in Birmania, in special modo del movimento per la democrazia promosso dal Nobel per la Pace Aung San Su Kyi, la leader politica che ha proprio di recente ha riottenuto la libertà (dopo anni di arresti domiciliari) e che in questi giorni compie il primo tour da donna libera (nonostante le nuove minacce del regime) in una nazione prostrata a livello economico, sociale, culturale, religioso. L’India accoglie 70mila profughi birmani (secondo stime delle Ong almeno il doppio) e il 60% dei dissidenti, fuggiti dalle angherie del regime ha trovato asilo politico nella patria di Gandhi. Della freddezza fra Yangon e New Delhi però ha approfittato Pechino, che oggi risulta il maggiore partner commerciale (nonché il principale fornitore di armi) del regime birmano, con un volume di affari superiore a 1,5 miliardi di dollari l’anno. Per questo negli ultimi anni l’India ha in qualche modo ammorbidito le sue posizioni, all’insegna di un maggiore pragmatismo politico: il Myanmar è un’utile riserva di energia e passaggio obbligato per i rapporti economici con i paesi dell’Asean. Ultimamente New Delhi ha cercato di contemplare entrambi i piani, promuovendo anche progetti per la sicurezza alimentare e la formazione professionale, mirati alla crescita della popolazione civile birmana.
La Cina, dal canto suo, ha continuato a siglare patti bilaterali nel quadro di un vasto piano di interventi infrastrutturali affidati ad aziende cinesi, come il porto di Kyauk Phyu (nello stato occidentale di Rakhine) e il suo indotto di autostrade, gasdotti e oleodotti che collega lo stato di Arkan (nella medesima area) e la provincia cinese di Yunnan. Va notato che la corsa fra la Tigre e l’Elefante, nel contendersi l’amicizia commerciale con Yangon, ha finito vanificare i possibili effetti economici e politici dell’embargo imposto dagli Usa e dalla Ue.
Anche l’Italia è coinvolta, almeno indirettamente, in un “megaprogetto” promosso in Birmania, che finisce per danneggiare le minoranze etniche. Lo è tramite la multinazionale “Italian-Thai Development” (Itd), azienda nata nel 1958 dalla collaborazione fra un imprenditore thai, Chaijudh Karnasuta, e l’ingegnere italiano Giorgio Berlingieri. Alla morte di quest’ultimo, nel 1981, l’azienda è divenuta interamente a capitale thai, e di italiano ha conservato solo il nome. L’Italthai – oggi la più grande impresa di costruzione d’infrastrutture della Thailandia – sta costruendo un porto per navi di grande cargo portata a Dawei, nella regione centromeridionale di Tenasserim. Il piano, da circa nove miliardi di dollari, include insediamenti industriali, collegamenti stradali e ferroviari, mentre l’area di 250 chilometri quadri attorno a Dawei è destinata a diventare la prima “zona economica speciale” del Myanmar. Piccolo particolare: a farne le spese saranno le comunità di etnia tavoyan, popolo di 100mila unità, già vittime della repressione a metà degli anni ’90. Allora oltre 15mila civili costruirono, a lavori forzati, la strada ferrata fra Ye e Dawei. Oggi i loro insediamenti e i loro villaggi di pescatori sono spazzati via dalla nuove grandi opere promosse dal governo birmano.
di Sonny Evangelista