Non ho mai fatto il designatore arbitrale. Né ho mai progettato di diventarlo. Eppure qualche volta Giacinto Facchetti ha telefonato anche a me. Un privilegio, sottolineo, per chiarire subito da che parte sto. Dubito che di quelle brevi conversazioni possa esserci traccia in qualche faldone. Di certo non racchiudevano contenuti meritevoli di intercettazione. Erano semplici chiacchiere attorno al pallone.
In genere lo squillo di Giacinto arrivava il giorno dopo una puntata dello “Sciagurato Egidio”. Di quel programma, bontà sua, apprezzava il taglio, lo stile, le continue contaminazioni. Un solo difetto, si crucciava, l’ora tarda della sua messa in onda. Una volta chiamò per commentare un servizio su uno spettacolo teatrale del figlio Gianfelice, ex portiere. Un’altra dopo un ritratto di quel geniaccio di Mariolino Corso, il compagno alieno che sapeva scuotere l’apparente pigrizia con lampi di accecante talento. Un’altra ancora perché colpito da un racconto sugli arbitri, intitolato “Olocausto”, del Nobel galiziano Camilo José Cela. Storia singolare, non c’è dubbio. Partendo da una citazione di Voltaire, “Sono molto amante della verità ma in nessun modo del martirio”, Cela sollecita la categoria ad adottare senza alcuna remora la filosofia dello scrittore francese: “Se gli arbitri fossero più voltariani – riflette – si riuscirebbe ad estirpare la brutta abitudine di impiccarli”.
Peccato, davvero, che nessuno abbia mai iniziato all’illuminismo De Santis e compagni. Comunque, Facchetti, col solito garbo, spalmava la sua curiosità su ogni argomento. Si ritraeva, per pudore, solo quando era lui a diventare protagonista. Forse la tv l’accendeva, ma il telefono restava muto.
Accadde puntualmente in occasione della celebrazione del suo percorso. Vita, carriera, aneddotica assortita. Il grande ciclo degli anni Sessanta, il rapporto con Herrera ed Angelo Moratti, l’epica di Italia-Germania 4-3. In quella puntata si parlò anche di un piccolo libro poco conosciuto, “Il prete lungo” di Luciano Bianciardi, l’autore de “La vita agra”, la prima vera rockstar della nostra letteratura. Un racconto in linea con lo spirito irriverente, anarchico, che ha sempre caratterizzato i suoi lavori. In questo mette in scena l’universo travagliato di un prete di periferia, ex fluidificante, vero artista del controllo di palla, “il seminarista ha un vantaggio, lo stop di tonaca”.
Un prete con un idolo, Facchetti appunto, talmente venerato da rappresentare l’approdo sicuro nelle notti gonfie di dubbi sulla propria vocazione: “Ebbene, lo confesso, a me piace lo sguardo casto di Facchetti e glielo invidio”. Uno sguardo sul quale concentrarsi per allontanare qualsiasi turbamento. A cominciare da quello sessuale. Il prete pensa a Giacinto, “che bel nome floreale”, e gli ormoni tornano a disciplinarsi.
Ora, qui nessuno vuole entrare nel merito dell’inchiesta sulla coda di Calciopoli, il 18 luglio sarà il Consiglio Federale a pronunciarsi sullo scudetto assegnato all’Inter cinque anni fa e del quale la Juve pretende l’immediata restituzione. Qui, più semplicemente, s’intende rendere omaggio proprio allo sguardo di Facchetti. Così speciale da conquistarsi una dimensione letteraria. Così limpido da placare i tumulti di un religioso. Umile proposta bipartisan: in queste ore di polemiche roventi, con Agnelli e Moratti a scannarsi sui media e i tifosi sul sentiero di guerra, proviamo ad emulare il parroco bianciardiano, lasciamoci acquietare dal ricordo di quello sguardo e piantiamola di viver come bruti. Su, un piccolo sforzo, almeno sino alla sentenza.