Cent’anni fa a raccontarcele era Freud. Adesso, il più completo inventario delle perversioni umane si trova sul sito della Peta, acronimo di People for the Ethical Treatment of Animals (persone che si battono per un trattamento etico degli animali), la più grande associazione animalista del mondo: oltre 2 milioni di sottoscrittori, presenti soprattutto negli Stati Uniti ma disseminati anche in Asia, Europa, America latina, e un fatturato di quasi 35 milioni di dollari.
Date un’occhiata anche voi. Sulle decine di siti che fanno capo a peta.org si dispiegano le denunce (documentate) delle più strazianti vessazioni che l’umanità sa infliggere a cani, gatti, topi, scimmie, mucche, elefanti, cavalli, galline, orche, delfini, serpenti, cincillà… Fate un elenco degli animali che conoscete anche solo di nome, e siate certi che qualcuno, da qualche parte, riesce a torturarne almeno un esemplare per il più futile dei motivi, per indifferenza, frustrazione, denaro, potere o presunzione, perché s’annoia d’essere uomo, o se ne compiace.
Il costume, la tradizione, il pensiero specista dominante hanno sempre concorso a giustificare questo “comune senso” dei nostri rapporti con gli altri viventi. Anche la legge tende immancabilmente a coprire e assolvere chi maltratta gli animali. Con qualche rarissima e formidabile eccezione. Quella di cui vi parlo in queste pagine risale a pochi giorni fa, al 6 luglio scorso, quando Peta ha annunciato che un Grand Jury del North Carolina ha incriminato quattro ex dipendenti del laboratorio di sperimentazione animale Plrs, incolpandoli di quattordici diversi reati di crudeltà contro gli animali che avevano il compito di curare e preparare per gli esperimenti.
Che cos’era successo? Per nove mesi, un militante della Peta era riuscito a lavorare sotto copertura nei laboratori della Plrs, guardando, annotando, e – appena possibile – filmando ciò che vi accadeva. C’è un video che documenta buona parte dei reati denunciati dall’associazione alle autorità: cani utilizzati due tre quattro volte in esperimenti successivi, rinchiusi per anni nella stessa gabbia, con piaghe purulente alle zampe, ascessi ai denti, apostrofati con urla e insulti; gatti terrorizzati scagliati contro le porte metalliche delle gabbie; animali contagiati per caso da agenti patogeni e abbandonati senza cure al loro destino. Un giorno, per un test commissionato da una società i cui prodotti vengono distribuiti in tutti gli Stati Uniti, i ricercatori applicarono una sostanza chimica sul collo di 57 gatti, che subito cominciarono a schiumare dalla bocca, a sanguinare dal naso e persero la vista. Furono per questo curati? Nient’affatto: poche ore dopo, infatti, lo stesso agente letale fu applicato agli stessi gatti una seconda volta…
Si badi: il Grand Jury americano ha messo sotto accusa solo taluni eccessi verificatisi in modo comprovato nel laboratorio, senza prendere di mira gli esperimenti in sé. Questi ultimi, infatti, anche quelli più inutili ed efferati, sono consentiti per legge sia negli Stati Uniti sia in Europa (per sincerarsene basta consultare l’allegato n. VIII, e cioè le ultime quattro pagine della Direttiva sulla vivisezione approvata a Strasburgo l’anno scorso. E il Plrs non era un laboratorio marginale: a servirsene infatti erano i più grandi produttori farmaceutici del mondo: Bayer, Ely Lilly, Novartis, Schering-Plough/Merck… Ma gli “eccessi” sono la norma ovunque, e non è un caso, ovviamente, se gli stabulari e i centri di ricerca con gli animali sono i luoghi più segreti, impenetrabili e indocumentabili del mondo.
Questo per dire che l’azione legale contro gli ex dipendenti della Plrs, che nel frattempo ha dovuto chiudere battenti, è sì una vittoria storica del movimento animalista – “a monumental victory” come la definisce Peta – ma solo un passo, il primo, di un lungo cammino che richiede determinazione, pazienza, amore della verità, immaginazione, coraggio.
Sono tutte doti che Ingrid Newkirk, la donna che ha fondato Peta trent’anni fa, possiede in massimo grado. Più la Peta cresce, e più viene attaccata. Più viene attaccata, e più la Peta riesce a guadagnare consensi, anche tra personaggi che contano sui mass media: Paul McCartney, Roger Moore, Kim Basinger, Natalie Portman, Alec Baldwin, Pamela Anderson (e in Italia, Elisabetta Canalis).
La biografia di Ingrid Newkirk meriterà un giorno un articolo a parte. Per ora, voglio solo ricordare tre capoversi del suo provocatorio, straordinario testamento biologico, dove c’è scritto che cosa dovrà fare Peta quando lei non ci sarà più:
– la carne del mio corpo – scrive Ingrid – dev’essere usata, tutta o in parte, per un barbecue umano, per ricordare che la carne di tutti i cadaveri della terra è la stessa carne e che noi non ne abbiamo bisogno per nutrirci;
– il mio dito indice dev’essere mandato a un museo del circo e lì figurare come “la più grande denuncia della Terra” per tutti gli elefanti, le tigri, i leoni e gli altri animali strappati alle loro famiglie, allontanati dalle loro terre, privati di tutto ciò che è per loro importante e piecvevole, maltrattati e costretti in servitù per offrire un misero divertimento agli umani;
– uno dei miei occhi dovrà essere rimosso, montato e recapitato al direttore dell’Epa per segnalargli che la Peta continuerà a tenerli d’occhio finché non smetteranno di avvelenare e torturare gli animali del mondo in esperimenti inutili e crudeli.
E poi, per smentire l’idea che gli animalisti siano per forza creature cupe e inconcludenti, c’è un desiderata che riguarda l’altro grande amore di Ingrid Newkirk: le corse di formula 1. Vorrei – si legge in fondo al testamento – che una piccola parte del mio cuore venisse sepolta vicino al circuito di Hockenheim, meglio se vicino ai box della Ferrari, dove Michael Schumacher ha corso e vinto il Gran Premio di Germania…