Di Luigi Bisignani, classe 1953 e figlio di un dipendente della Pirelli, ricorre la stessa definizione che fu affibbiata a Licio Gelli, classe 1919 e figlio di un mugnaio di Pistoia: “è uno degli uomini più potenti d’Italia”.
In altre situazioni e in altri Paesi potrebbe valere per loro lo stereotipo rosa (alla Gabriele Muccino de La ricerca della felicità) di gente venuta dal basso che, grazie al merito e alla dedizione, si è fatta strada fino a raggiungere le sommità della piramide sociale. E invece ne sono l’esatta negazione. Visto che la loro ascesa non dipende dall’eccellenza raggiunta in qualche campo, da lunghe gavette superate grazie all’incrollabile determinazione, bensì da pratiche indefinibili (e spesso indicibili) che si riassumono in una job description che non descrive niente: faccendieri. Una genia che alligna ai margini dei corridoi del Potere e nei meandri delle capitali politiche degli Stati, dove si decidono gli affari e le carriere. Calamite irresistibili per torme di uomini di mano e portaborse.
A Roma li chiamavano “spicciafaccende”. Spesso organizzati in associazioni a delinquere per spennare il sempliciotto sceso dalla provincia con il suo pacco di banconote e abbacinato dalle luci della Capitale. Perché la città del Campidoglio, ma anche dei ministeri e della Curia, svolge una funzione attrattiva irresistibile per queste attività parassitarie e per chi intende fare strada praticandole. Soprattutto per un ceto specifico: quello medio basso, che in Italia – a differenza delle grandi democrazie dell’Occidente – non ha una tradizione di fierezza e indipendenza (derivata dalla sua matrice nel lavoro artigiano) ma – al contrario – presenta forti tratti di corrività e servilismo, tipici della sua provenienza impiegatizia e cortigiana al servizio del potente di turno; dal barone latifondista al grande rentier, al notabile di partito.
Paolo Sylos Labini ne parlava come di “topi nel formaggio”.
Dunque, arrampicatori sociali. Gente che si intrufola e tenta disperatamente di familiarizzare con chi può servire, è ghiotta dell’ultimo pettegolezzo quanto del tutto priva di quella remora chiamata “principi”. Ma che resta – comunque e sempre – ben riconoscibile da quel marchio che nella corsa a perdifiato per un posto al sole purchessia (e i relativi simboli di status) non può scrollarsi di dosso: la mediocrità.
A suo tempo un tipo mi raccontò – prima che scoppiasse lo scandalo P2 – di essere stato avvicinato da un Maestro Venerabile chiamato Gelli, che lo invitò a passare una giornata in quel di Castiglion Fibocchi, provincia d’Arezzo, dove sorgeva la famosa Villa Wanda, assurta poi agli onori della cronaca. Sceso dal treno trovò ad attenderlo l’ex materassaio della Permaflex con una Mercedes color oro, che sembrava un cioccolatino gianduiotto. Salito in macchina ebbe immediata conferma dei gusti (non solo) musicali dell’ospite scorgendo una collezione di cassette con le incisioni di Luciano Tajoli (i più anziani ricorderanno trattarsi di un lacrimoso fine dicitore del sanremume canzonettistico anni 50, alla “grazie dei fior” e “son tutte belle le mamme del mondo”. Insomma, la peggiore Italietta familistica e premoderna).
Rimasti soli nello studio del personaggio presunto luciferino, lo sentì sproloquiare di “dossieres” (pronunciato foneticamente). Insomma, un peracottaro.
Il nostro tipo che era un po’ snob, e solo perché snob, se la diede a gambe. Quella fu la sua fortuna. Poco tempo dopo i finanzieri del giudice Gerardo Colombo iruppero nella villa e scoprirono che quel peracottaro era il grande burattinaio di inquietanti disegni sovversivi. Ma i burattini non si erano resi conto che quello era un peracottaro?
Allo stesso modo guardate il Bisignani: le stigmate della mezzacalzetta, dai capelli bisognosi di shampoo alle giacchette strizzate con le cravatte male assortite (è intollerabile allacciare una regimental su una camicia rigata); le frequentazioni di un vippume che è soltanto il generone rifatto, che parla il linguaggio dell’angiporto senza averne neppure la genuinità; prestate attenzione con chi si confida, tipo l’Enrico Cisnetto, che fa il giornalista economico confondendolo col gossip, sbavando davanti ai riccastri e ai toccati da improvvisa celebrità che accoglie (in perfetta tenuta da italiano in gita) nella piazzetta di Cortina e li intervista in ginocchio.
Sono questi i nuovi potenti dell’Italia? Ma per favore. Restano quelli di sempre, seppure con molta meno fame di prima: dei faccendieri. Come già si disse per il Gelli, solo dei Belfagor al servizio di Belzebù (che in quel caso fu individuato in Giulio Andreotti e ora potrebbe essere un suo epigono con capelli e vestitucci azzurrini, segno dell’ulteriore abbassamento di livello negli ultimi decenni).
Fa riflettere la considerazione che il nostro Paese finisce sempre per consegnarsi al Belzebù di turno, circondato dalla sua corte di bru-bru; con metaforiche corna e coda come i diavolacci, terribili ma anche molto ridicoli, dei gironi infernali danteschi.