Il Chp, principale forza d'opposizione, alla fine ha prestato giuramento e ha preso parte al dibattito sulla fiducia del terzo governo targato Akp. L'accordo ha spiazzato gli altri partiti che come i repubblicani avevano deputati neoeletti in prigione: dai nazionalisti del Mhp ai curdi del Bdp
I negoziati sono stati condotti dal nuovo speaker del Parlamento Cemil Çiçek, scelto dall’Akp, ma con il gradimento del Chp, facilitato dall’interesse di tutti a trovare un punto d’incontro. Il segnale dell’accordo raggiunto, e ormai solo da formalizzare, è arrivato già domenica: con il presidente Abdullah Gül, in partenza per una visita ufficiale di due giorni in Bulgaria (in agenda, il gasdotto Nabucco, l’intensificazione degli scambi commerciali, i problemi della minoranza turca), che ha imbarcato dei membri dell’opposizione in attesa di giuramento, dandolo in sostanza come cosa fatta.
Lunedì è arrivata l’ufficializzazione, dopo un nuovo giro d’incontri: con una dichiarazione congiunta ma in verità assai generica, priva di riferimenti diretti ai cambiamenti legislativi auspicati dal Chp. Una soluzione talmente rapida da non lasciare spazio all’Mhp, il partito nazionalista che aveva giurato nonostante un neoeletto deputato in prigione (stesso motivo), per inserirsi nel negoziato.
Restano isolati i deputati indipendenti del Bdp curdo. Sei loro colleghi sono dietro le sbarre con l’accusa di aver legami con il Pkk, il partito curdo dei lavoratori, considerato da Ankara alla strgua di un’organizzazione terrorista. Nel caso vengano fornite garanzie scritte sulla sorte dei deputati in prigione, presteranno giuramento. Un’indicazione che sarebbe arrivata direttamente dal leader curdo Abdullah Öcalan. Sono stati esclusi dalle trattative Akp-Chp, ma hanno ricevuto un pressante e pubblico invito a tornare in Parlamento direttamente da Gül ed Erdoğan: che vede nel Bdp un possibile partner nel risolvere l’annosa questione curda, sempre che non assuma delle posizioni radicali come quella ventilata di un Parlamento parallelo a Diyarbakır, nel Kurdistan turco. Il giuramento è un test di affidabilità, insomma: la svolta conclusiva potrebbe esserci anche a breve (o dopo l’estate).
Nel frattempo, venerdì, il premier ha presentato il suo programma in seduta plenaria dopo aver annunciato la squadra di governo alla stampa: nuova Costituzione, crescita e giustizia sociale, infrastrutture e ricerca, sanità, scuola ed Europa.
Ci si potrebbe chiedere: ma chi glielo fa fare alla Turchia a insistere per entrare nell’Ue? I negoziati sono in fase di stallo, la Turchia non figura nel bilancio pluriennale 2014-2020 di Bruxelles, Sarkozy e la Merkel sfruttano ogni possibile occasione per manifestare la loro contrarietà alla membership di Ankara, Cipro continua a rimandare la sua indispensabile riunificazione (ma il ministro degli esteri Ahmet Davutoğlu si è detto fiducioso per una soluzione prima della presidenza di turno cipriota, prevista per il secondo semestre del 2012), la crisi economica dell’Unione potrebbe suscitare dei dubbi di opportunità a un paese che sta battendo ogni record di crescita e aspira a diventare la decima potenza al mondo per Pil entro il 2023.
Eppure il leader dell’Akp, nel suo discorso alla Grande assemblea, ha posto l’Europa tra le priorità da perseguire con convinzione: anche attraverso il nuovo ministero dell’Europa affidato a Egemen Bağış, già capo negoziatore, che martedì e mercoledì avrà una serie d’incontri su Cipro, sull’iter di adesione, sulle riforme richieste – a Istanbul e ad Ankara – col commissario europeo all’allargamento Štefan Füle. L’obiettivo ultimo – e strategico – dell’ingresso a pieno titolo in Europa è stato fissato al 2023, nel centenario della Repubblica: ma la Turchia non vuol perdere tempo, sa bene che la prospettiva europea la rende più appetibile come modello per tutti i paesi arabi e che rinunciarvi – nonostante le difficoltà e i pregiudizi – non è nel suo interesse.
di Giuseppe Mancini