Emilia Romagna - Cronaca

Da Vermicino alla macelleria di Avetrana: il buio creato dalla tv nel libro di Veltroni

L'ex candidato premier non vuole parlare del Pd né della politica attiva. Ma una sola affermazione gli scappa, su Romano Prodi: "E' una delle risorse di questo Paese, una delle persone migliori che abbiamo. Presidente della Repubblica? Questo non lo dico, ma l'Italia lo sprecherebbe se non lo utilizzasse nella maniera migliore"

Lo spunto è la presentazione del suo ultimo libro, L’inizio del buio, edito Rizzoli.  E’ così che Walter Veltroni richiama alla responsabilità e all’etica. La responsabilità della memoria, l’etica dell’informazione.

Assieme a Bianca Berlinguer, sul palco allestito dalle librerie Ambasciatori di Bologna, Veltroni scrittore racconta di come, con l’introduzione della televisione, le persone siano diventate spettatori, rinunciando alla partecipazione civile in favore di una presenza in diretta alla vita e nella morte altrui.

Attraverso un parallelismo “straziante”, come l’ha definito la direttrice del Tg3, tra il piccolo Alfredino Rampi e Roberto Peci, entrambi innocenti e le cui morti sono state seguite in diretta per la prima volta nella storia della televisione italiana, Veltroni mette in luce – è il caso di dirlo – il buio che ha pervaso la coscienza degli italiani.

Onorevole Veltroni, cos’è il buio?

È introiettare la prevalenza della paura sulla coscienza del futuro. Il buio è la perdita di speranza. Noi siamo cresciuti in tempi della storia in cui tutto sembrava possibile. Dopo 20 anni non si riuscirà a salvare un bambino da un pozzo. È l’Italia intera rimase a guardare per giorni il tragica impossibilità. L’inizio del buio è la trasformazione dei cittadini in spettatori, che ci ha portati fino alla macelleria del dolore di Avetrana. Gli spettatori, coloro che guardano, prendono il sopravvento sui cittadini, e questa è una svolta civile ma soprattutto politica, che speriamo volga a conclusione.

Se facciamo un bilancio, da quando compare l’occhio della tv, seguito da quello delle persone, che partecipano in diretta agli avvenimenti, c’è più violenza e meno partecipazione. Non è un controsenso?

Noi venivamo da tempi di violenza, gli anni Settanta, ma anche di passione politica e civile, di vitalità intellettuale, in cui nessuno si sentiva e si poteva sentire indifferente al proprio tempo. Levi scriveva “il contrario dell’amore non è l’odio, ma l’indifferenza”.

Ora c’è più informazione ma meno partecipazione. Emotivamente ci siamo assuefatti a tutto. Certo, ci sono molti agenti collettivi, sezioni, sindacati, comitati di cittadini: l’impegno sta rinascendo attraverso la rete. Ma sono gruppi molto più molecolari, frammentati, legati a singole istanze, diversamente importanti.

In quegli anni non c’era cosa che succedesse in qualsiasi parte del mondo che non ci riguardasse.

In questi di anni, invece, la vera “prigione del popolo” è quindi diventata la paura della realtà?

Si, in qualche misura si, se ne è fuggiti. Occupandosi più di quello che succede nella casa del grande fratello che nella propria, si tralascia di affrontare la propria dose di responsabilità. Ci si concentra su cose non vere. È in atto una cancellazione della reale realtà. E lo vediamo sul piano politico, dove Berlusconi può dire qualunque cosa a prescindere dal suo quoziente di realtà. Questo paese ha troppi doppi fondi, troppa gente con doppi tripli, fondi, che ha permesso che troppa gente venisse uccisa. Finché non rischiareremo con un po’di luce la società, il buio continuerà ad oscurare la vita civile e politica del nostro paese.

Come si accende la luce?

Questo compito spetta alle istituzioni, in primo luogo. È una sfida impegnativa: non basta vincere le elezioni per accendere la luce. Servono due cose: una battaglia civile, culturale, morale – e colgo l’occasione per ricordare a 30 anni di distanza il discorso sulla morale di Enrico Berliguer (come avete fatto sul Fatto Quotidiano). L’altra è un riformismo vero, col coraggio di sfidare il conservatorismo. Rinunciare a navigare vicino alla riva perché più comodo.

La storia del terrorismo in Italia non è storia ancora: è pelle viva. Se ne parla ancora, con il distacco che l’analisi storica consente. O sbaglio?

Per molti anni, quello che è stato il nostro Vietnam è stato raccontato dai nostri terroristi. Ora iniziano a parlare le vittime: Mario Calabresi, Benedetta Tobagi. Per trent’anni la moglie di Peci non parlò con nessuno. Bisogna raccontare lo specifico orrore di questa storia: le Br-mafia. Perché l’idea di annientare il tuo avversario trasformato in nemico può riemergere. La memoria può sconfiggere questa belva.

Viene in mente la strage di Ustica e la storia di Daria Bonfietti, delle sua battaglia per il riconoscimento e contemporaneamente per il superamento della condizione di vittime. Come mai in questo paese le vittime devono cercare giustizia da sole?

È la storia italiana. La storia italiana è la storia del costante contrasto tra una società civile che tende ad organizzarsi, e l’impenetrabilità di un potere che tende a riprodurre se stesso e quindi a difendere se stesso e il suo passato. Tu pensa quanto ci siamo portati appresso la storia della P2

Quanto danneggia che i colpevoli non paghino? Quanto toglie la mancanza di verità?

Toglie la coscienza del diritto. Espone al fatto che l’illegalità venga considerato un codice normale della vita di una persona. Scatta un meccanismo per il quale si applica il principio di illegalità anche ai comportamenti quotidiani.

Con quali armi si combatte, a livello personale?

Con l’etica. La vita delle persone è sacra! Ma dove siamo arrivati? Dove vogliamo arrivare? Dove ci sta portando questo spirito del tempo che moneta rizza la vita e la morte? Se vogliamo essere indifferenti, becchiamoci lo spettacolo dell’orrore, ma sappiate che non ha limite. La negazione dell’integrità, della bellezza dell’altro, vedere gli altri come un problema e non come un’opportunità … dove ci sta portando?

Con le armi della coscienza e delle parole, che sono le uniche armi che a mio avviso hanno veramente cambiato il mondo.

Ormai la gente, anche a sinistra, ha sfiducia nei confronti della battaglia culturale, ideale; invece io considero che sia un po’un dovere. E poi la cosa più affascinante che si possa fare. È un problema di scelta personale.

Proprio a sinistra, nel partito che lei stesso ha fondato, proprio qua a Bologna, di morale se n’è rintracciata poca.

Non mi faccia parlare del Pd.

Come? È una concretizzazione di quello di cui stiamo parlando.

Le posso dire questo: che anche il Pd deve partecipare di questa battaglia etica, e deve farlo dentro di sé e fuori di sé.

Si, ma nei fatti?

Nei fatti se non lo fa, non è Pd.

E allora ce n’è ben poco di PD …

No, perché c’è tanta brava gente che lavora.

Assolutamente, ma così torniamo alla divisione società civile-istituzioni: proprio in seno al Pd?

No, non bisogna estremizzare. Anzi, il PD è nato per questo: per essere la forza che cambiava radicalmente. Cioè, quello che ho cercato di fare, è stato di introdurre un elemento di discontinuità nella storia italiana, mi rendo conto che non è facile. Però va fatto.

Però lei ha ripreso una serie di persone che venivano dal “vecchio”.

È un discorso lungo.

Va bene, quinto emendamento.

(sorride)

Un ultima domanda. Romano Prodi:  immagina un ruolo nuovo per lui, in futuro?

Romano è una delle risorse di questo paese.

Lo vede come Presidente della Repubblica?

Questo è il tipo di domande alle quali non rispondo mai perché non ho più il ruolo per questo. Ma dico che è una risorsa per il paese, una delle persone migliori che ci siano, e quindi l’Italia lo sprecherebbe se non lo utilizzasse in maniera migliore.