E’ l’articolo 37, uno degli ultimi e anche uno dei più incomprensibili quando non si hanno codici di procedura civile o un consulente legale a portata di mano. E’ l’articolo che rimodula i costi dell’accesso alla giustizia da parte del cittadino. Naturalmente, il titolo inganna: “Disposizioni per l’efficienza del sistema giudiziario e la celere definizione delle controversie”. E, come da consolidate cattive abitudini, segue un elenco di commi a minestrone. Si sta parlando della manovra, meglio definita come Decreto legge 6 luglio 2011, numero 98, in vigore da pochi giorni.
Per cominciare si ordina ai capi degli uffici giudiziari di stabilire, entro il 31 gennaio di ogni anno, “gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell’anno in corso”. Peccato che non si abbiano indicazioni precise su quanto duravano i procedimenti “prima” della manovra né sui sistemi di misurazione.
Il pezzo forte è comunque l’aumento generalizzato del cosiddetto contributo unificato, ovvero il balzello unico che il cittadino deve versare nelle casse dello Stato da quando sono state abolite le decine di marche da bollo e altre diavolerie che costringevano i cancellieri a perdere un sacco di tempo per controllare se le incollature erano corrette.
Una trovata tremontiana che resterà nella memoria è stata la decisione di obbligare le coppie sulla via della separazione a versare 37 euro in caso di scelta consensuale e 85 in caso di separazione giudiziaria. Ne hanno parlato quasi tutti i quotidiani.
Purtroppo non è la sola. Altra bella pensata è quella di esentare dal versamento del contributo unificato i procedimenti di lavoro soltanto per coloro che possono dimostrare un reddito imponibile inferiore a 21.256,32 euro. E come dimostrare il reddito: con una fotocopia della denuncia dell’anno precedente, con una dichiarazione giurata del commercialista? No, con l’autocertificazione. Così, il primo risultato della norma è stato la sospensione delle cause giacenti in attesa che il lavoratore autocertifichi: alla faccia del raggiungimento dell’obiettivo (“celere definizione delle controversie”)!
Nel complesso, per tutti gli altri campi del diritto civile l’aumento del contributo oscilla tra il 10 e il 20 per cento a seconda del valore della cause, rispetto alle tabelle precedenti. Non è poco, e servirà a disincentivare non tanto le liti di scarso valore, ma i ricorrenti di scarso reddito. In aggiunta, è stato stabilito che pagheranno il 50% in più tutti coloro che dimenticheranno di inserire il loro codice fiscale nel ricorso o il cui difensore ometterà di indicare l’indirizzo di posta elettronica certificata.
A questo proposito, è d’obbligo chiudere con una perla alfano-brunettiana.
Il 30 giugno scorso è entrata in vigore la nuova firma digitale, per ordine di un organismo dal nome altisonante, DigitPa, che ha sostituito quella che era un tempo l’Aipa. L’organismo, che dipende dal ministero per l’Innovazione, ha cambiato l’algoritmo di firma e ha imposto a chiunque debba dialogare con le pubbliche amministrazioni di adeguarsi. Per quanto se ne sa, si sono adeguati tutti tranne… il ministero della Giustizia. Perché? Questione di denaro, mancanza di fondi. Va considerato comunque che il costo della modifica sarebbe pesato sul bilancio di via Arenula per una somma di qualche decina di migliaia di euro (meno della spesa prevista per l’auto blu di un capo dipartimento). Il ministero per l’Innovazione, volendo favorire Alfano, ha consentito a prolungare la validità della vecchia firma per gli uffici della Giustizia.
Qualcuno dirà: e allora, dov’è la notizia?
Ecco, la notizia sta nel piccolo dettaglio che la giustizia prosegue con la vecchia firma e la conseguenza è che il sistema non riconosce le nuove firme (adeguate, dunque corrette secondo regolamento nazionale) sui fascicoli che arrivano per via telematica. Tanto per fare un paio di esempi, a Modena non riescono più a leggere i ricorsi per i decreti ingiuntivi, a Firenze tre ricorsi sono stati rigettati perché considerati privi di firma mentre invece erano firmati debitamente.
Uno stato di cose da delirio. O uno stato di cose da governo che si occupa soltanto di salvare le cause del presidente del Consiglio?