Tra poche ore arriveranno le 16:58 del 19 luglio. Un appuntamento fisso per chi ha scolpito nella memoria quel 19 luglio, quello del 1992. Tutti quelli che hanno l’età per ricordarselo sanno dove erano quel giorno. E ovviamente anche dov’ erano 57 giorni prima, più o meno alla stessa ora.
Chi scrive, il 23 maggio era in vacanza in Sardegna con un gruppo di giornalisti di basket. E ricorda, con vergogna, di non ricordare moltissimo. Di aver sentito distrattamente il nome di quel Giudice fatto saltare in aria a Palermo assieme alla moglie, la scorta e un pezzo di autostrada. Senza collegarlo a niente, senza capire che quell’evento avrebbe cambiato le nostre vite. “Sono cose loro, che succedono laggiù”, presumo di aver pensato, prima di rimettermi a fare con scellerata indifferenza quel che stavo facendo.
Il 19 luglio invece ero in Calabria, a casa con mio padre.
Ebbi occasione di seguire tutte le dirette da Via d’Amelio, di percepire lo sgomento del nobile Nino Caponnetto che con dolcezza prende la mano del giornalista e dice: “E’ finito tutto” (salvo poi dimostrare da subito il contrario e mostrarci la retta via, quella della Resistenza). Di capire, finalmente, che era successo qualcosa di gravissimo. Che anche se non avevo mai sentito fino ad allora il nome di quei due Giudici, loro avevano cercato di fare qualcosa per me, per noi, per tutti. Ed erano morti esattamente per questo motivo, ragion per cui disinteressarsene era irresponsabile e cretino (come minimo).
Da allora ho cercato di recuperare freneticamente il tempo che avevo perduto fino a quel 1992. Leggendo centinaia di libri e arrivando a scriverne uno assieme a un amico diventato magistrato in quel 1992. Un libro pieno delle straordinarie parole che ci hanno lasciato i due Giudici. Parole di Giustizia e Speranza, di Civiltà e Rigore, di Scienza e Coscienza.
Ho anche visto tanti filmati, cercando di conoscere il più possibile quei due grandi amici, morti come purtroppo tantissimi altri per senso del Dovere, per voglia di non chinare la testa e di non pensare in proprio ma come parte di una società. Che non potrà mai dirsi civile fino a che non avrà scacciato il puzzo del compromesso morale sostituendolo col fresco profumo di libertà.
Uno di quei filmati l’ho visto recentemente, anche se lo avevo nello zaino da parecchi mesi. E’ il girato integrale dell’intervista al Giudice Borsellino realizzata il 21 maggio 1992 dalla coppia Calvi-Moscardo di Canal Plus, meritoriamente recuperato dal Fatto Quotidiano.
Al di là dello straordinario valore giornalistico delle immagini, mi ha colpito tantissimo il lato umano dell’intervistato, soprattutto alla luce della datazione. 48 ore prima che Giovanni Falcone spirasse tra le sue braccia, l’uomo che parla con grande cognizione di causa di temi delicatissimi mostra chiaramente negli occhi il lampo dell’ironia, della voglia di vivere, di una straordinaria umanità.
Quel lampo che l’attentato di Capaci deve aver spento, perché non lo si ritrova nei documenti audiovisivi post 23 maggio. Nel discorso alla Biblioteca Comunale, nella commemorazione per i boy-scout, nell’ultima intervista Tv a Lamberto Sposini, si ritrova la stessa straordinaria intelligenza, il lessico forbito senza essere cattedratico, il coraggio. Ma quel lampo è sostituito da una rabbia sorda mista a lucida consapevolezza, di cui è fin troppo facile oggi comprendere le radici.
Quanto deve essere stato difficile per un Uomo del genere andare incontro alla morte sapendo perfettamente di farlo, di doverlo a ss stesso.
E quanto dovrebbe essere facile oggi, per noi, celebrare tutti i giorni, e non soltanto il 19 luglio, quel sacrificio. Ritrovandoci sotto la bandiera della Legalità, senza divisioni e pregiudizi, senza settarismi e distinguo.
Grazie Giudice Paolo.