Sono dieci anni dal G8 di Genova. Dieci anni dalla “macelleria messicana” nel “clima cileno” in mezzo ai carrugi, dentro la Diaz, dentro Bolzaneto. Domani: dieci anni dall’uccisione di Carlo Giuliani.

In queste ore sta circolando online l’immagine che pubblichiamo di lato. L’ha messa online San Precario con una didascalia molto semplice: “Da dieci anni abbiamo Carlo nel cuore”. È una frase lontana da recriminazioni, divisioni, distinzioni. Solo memoria: dopo 3650 giorni, quel ragazzo di 23 anni ucciso da un carabiniere in mezzo alla follia, è una persona da ricordare, da salutare con un pensiero affettuoso.

Lo confesso. Faccio un’enorme fatica a scrivere questo post, mi prende un blocco allo stomaco. A Genova, dieci fa, c’ero, tutta la settimana di mobilitazione, allo stadio Carlini, con le Tute Bianche. Ho ricordi bellissimi dei giorni precedenti agli scontri; ancora gli incubi sulle giornate del 20 e 21 luglio. Mai, nella mia vita, mi sono sentito in pericolo come quei due giorni: la sensazione diffusa, tra noi ventenni cresciuti in pace dopo gli anni di piombo, era di essere intrappolati in un non luogo, una città dove i diritti erano sospesi, la libertà, forse anche la vita, a rischio: per vari mesi dopo il luglio 2001, mi provocava panico la sola vista di un Defender dei Carabinieri (e ho scoperto in seguito, non ero il solo!)

Eppure voglio provare a parlarne oggi, alla vigilia del decennale. Non mi interessano bilanci, voglio fare solo una semplice constatazione che mi riguarda direttamente e che si è rafforzata in questi anni condividendo a mezza bocca scarse riflessioni con gli amici e le amiche che erano a Genova, al G8.

In questi dieci anni, probabilmente colpevolmente, non sono mai riuscito a leggere articoli di giornale sui fatti del G8, sulle violenze, sui processi; non sono mai riuscito a guardare trasmissioni tv che si sono occupate di quei giorni; non ho letto alcun saggio o alcun romanzo su quegli episodi; con gli amici, appunto, con i quali parliamo di tutto sviscerando ogni più insignificante dettaglio, non siamo mai riusciti – a cena come a mare, al bar o in vacanza – a confrontarci serenamente su quelle giornate.

È un blocco. Totale. Mi è spesso tornato in mente un saggio studiato all’università. Si intitola: “Terra di nessuno. Esperienza bellica e identità personale nella prima guerra mondiale” di Leed Eric J.. Lo so, non si tratta proprio di una lettura da ombrellone, ma l’ho trovato comunque illuminante. Il libro indaga il ritorno a casa dei reduci del primo conflitto mondiale, e le ripercussioni psicologiche che questi si portavano dietro.

Nel 15-18 gli eserciti al fronte erano costituiti soprattutto di contadini sbattuti, in un nonnulla, dalla coltivazione dei campi alla barbarie. La prima guerra mondiale fu una guerra moderna, di posizione, di fronti immobili. Leed racconta quanto straniante fosse la vita in trincea per quegli uomini che venivano dalla campagna: la potenza di fuoco e acciaio che oscurava il cielo sopra la loro testa, li sovrastava; la modernità che si manifestava in una capacità di distruzione industriale e dalla potenza inconcepibile, li annullava. Al ritorno a casa molti di loro non riuscirono più a trovare un equilibrio tra il piccolo mondo antico con il quale si erano ricongiunti, e le esperienze disumane vissute in guerra. Erano tutti in una “terra di nessuno” psicologica difficile, quasi impossibile, da rielaborare.

Il G8 di Genova non è paragonabile alla prima guerra mondiale. Ma, fatte le dovute proporzioni, penso che un meccanismo simile sia scattato nella mia testa e, forse, nelle mente di chi prese parte alle proteste di quei giorni. Genova, oggi, dieci anni dopo, per molti è ancora una “terra di nessuno” mentale difficile da elaborare. Troppa nella memoria la paura e lo sbigottimento.

A voler tagliere i concetti con l’accetta, andrebbe detto che quella repressione feroce centrò in pieno il suo scopo.

Oltre gli scontri, gli anni a ridosso del 2001 costituirono un periodo straordinario per la mobilitazione e l’elaborazione politica. La mobilitazione coinvolse uomini e donne ad ogni angolo del globo, per la prima volta grazie ad Internet (allora, soprattutto mail e mailing list). L’elaborazione politica portò sulle bandiere dei manifestanti tutti i temi che sarebbero diventato cruciali negli anni a venire: globalizzazione equa pensata in un un modo multipolare (new-global e non no-global); condanna della speculazione finanziaria e del neo-liberismo cieco; sostenibilità ambientale; diritti delle minoranze del mondo; strumenti di partecipazione dei cittadini e confronto dal basso.

Dopo Genova, quel movimento, si è in gran parte perso e, comunque, non è più riuscito a riprendersi la dimensione di massa che si era conquistato. Nella politica, quella della gente, fuori dai palazzi, un pezzo importante di società è andato scemando, per dieci anni, perso nella terra di nessuno. Se in questi anni la precarietà si è imposta senza grandi conflitti, se i partiti non si sono evoluti e aperti, se nuovi movimento culturali non si sono imposti, se il mondo dell’informazione non ha fatto passi in avanti, io penso che ciò sia dovuto anche a quella repressione di dieci anni fa, alla lezione data ai ventenni di allora.

La colpa si badi, non è certo di chi in queste ore, in questi giorni, dice: “da dieci anni abbiamo Carlo nel cuore”. Ma – e lo dico a me stesso prima che agli altri – una rielaborazione politica e culturale di quei giorni, dei giorni che li hanno preceduti e di quelli che li hanno seguiti, è importante, ancora più oggi, per uscire dalla terra di nessuno. “Camminiamo domandando” diceva il Subcomandante Marcos. Ecco, sarebbe bello, con tutti i dubbi, le domande e le paure, rimettersi in cammino dopo dieci anni dal G8 di Genova. Non è facile: se l’avessi trovato online, non so se avrei letto questo post.

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