“Una città per conto proprio”. Così scriveva lunedì mattina Mona Seif al Islam, conosciuta su twitter come monasosh. E’ una delle protagoniste della Rivoluzione del 25 gennaio, ed è a Tahrir. Piazza Tahrir, dove il sit in e la tendopoli sono destinati a durare, da quando – l’8 luglio scorso – si è aperto un nuovo, decisivo capitolo nel cambio di regime al Cairo. “Abbiamo aperto una scuola”, scriveva nel pomeriggio un’altra delle ragazze di Tahrir, per far capire che dalla piazza non hanno alcuna intenzione di andarsene, i rivoluzionari. Sono passati poco più di cinque mesi dalla caduta di Hosni Mubarak, l’11 febbraio, e il passaggio di consegne del potere al Consiglio Militare Supremo (SCAF), il direttorio degli alti vertici delle forze armate che guida l’Egitto da allora. E in questi cinque mesi le richieste di Piazza Tahrir non sono state esaudite. Quasi per nulla.
Piazza Tahrir, allora, è tornata a farsi sentire. Non è più la piazza delle proteste oceaniche di gennaio e febbraio. Uno, due milioni di egiziani per strada a “chiedere”, “pretendere” libertà e democrazia. È però la piazza che ha dettato le richieste della Rivoluzione, sin dai primi giorni: quella singolare Repubblica di Tahrir con le proprie regole, la propria idea di democrazia, stato di diritto, libertà, difesa dei diritti civili. Il sit in in piazza continua, da oltre dieci giorni. La piazza, dicono i testimoni, i tweets, i racconti, si è trasformata in un mondo tutto proprio, dalla propria topografia, le proprie regole, la propria cultura. Appuntamento sulla politica versione rapida (tweetnadwa), il cinema alla sera a Tahrir, i graffitari, i poeti, i musicisti. Lavorano altrettanto i (giovani) politici di Tahrir, che hanno deciso di non dare un’altra dilazione al Consiglio Militare Supremo, per evitare di essere fagocitati, e con loro la rivoluzione.
E’ la massa dei ragazzi di Tahrir che, lungi dall’essere naife come si potrebbe credere in Occidente, ha ben chiaro quello che non vuole. E cioè la controrivoluzione neanche tanto strisciante che ha tentato di farsi strada in questi cinque mesi. E ha anche chiari alcuni punti sui quali non si indietreggia: stato di diritto, epurazione, processo al regime, sostituzione degli uomini più legati al regime. Richieste che non sono state esaudite con i pochi processi contro alcuni dei ministri più famigerati dell’era Mubarak, né con l’arresto di Gamal e Alaa Mubarak, i figli dell’ex presidente.
C’è bisogno, per esempio, di processare i poliziotti, in un paese che per decenni è stato in balia – quotidiana – del sistema di sicurezza di Omar Suleiman e dei vertici della polizia e della intelligence. E sui procedimenti contro chi ha torturato e ucciso prima e durante la rivoluzione, il Consiglio Militare Supremo, che pure ha messo in funzione i tribunali militari, non ha fatto quasi nulla. Il disagio da parte dei ‘rivoluzionari’ è cresciuto, settimana dopo settimana, sino a che non si è deciso di far sentire di nuovo la pressione della piazza. Una piazza stavolta molto più complessa del periodo gennaio-febbraio, perché nel frattempo la rappresentanza politica è divenuta meno vaga e molto più strutturata, tra coalizioni, associazioni, cartelli.
Il peso della parte più attiva della Rivoluzione del 25 gennaio è forte, come dimostra quello che è successo negli ultimi dieci giorni, da quando è iniziato il sit in, dopo la manifestazione dell’8 luglio. Dopo una reazione dura, quasi violenta, lo SCAF è stato costretto a moderare i toni. E il premier Essam Sharaf – che pure è stato espressione di Piazza Tahrir – ha accettato il rimpasto di governo. Non un rimpasto di poco conto, perché i nuovi ministri sono quattordici. 14 ministri cambiati, dimessi, nominati e poi cancellati. Non è ancora il punto fermo che tutti attendono, l’Egitto non è ancora uscito dalla palude di un regime che si è formato in ben trent’anni di autocrazia. Ai rivoluzionari il rimpasto non basta: a questo punto, visto quello che è successo nei cinque mesi precedenti, vogliono altro. La piazza, insomma, sta dimostrando che non demorde, e che si è disposti a rischiare, di nuovo, parecchio, per l’amore della libertà.
di Paola Caridi