I giorni che intercorsero tra il 23 maggio e il 19 luglio 1992 videro un uomo morto che ne aspettava la certificazione. Lo sapevano tutti, lui per primo. Antonio Ingroia, a Tuttinpiedi!, ha dato una volta di più testimonianza di quanto Paolo Borsellino stesse come ultimo passero sul ramo: come foglia che cade.
Per quelli della mia generazione, quei quasi due mesi di diciannove anni fa furono pervasi da una sensazione vaga. Se da un lato si avvertiva di essere al centro di una storia sbagliata, dall’altro c’era la percezione indefinita di poter cambiare qualcosa. Ricordo scioperi, incontri, dibattiti. Ricordo Antonino Caponnetto nella mia scuola, a dirci che non dovevamo lasciarli soli.
La mattanza di Via D’Amelio ci accolse in spiaggia. Fummo pugili. Pugili che aspettavano quell’uppercut. Che conoscevano da vicino il tappeto, ma che al contempo ritenevano plausibile uno scatto tale da farci rialzare. Prima che l’arbitro contasse “dieci”. Non ci siamo rialzati. No, non parlo di casi isolati. Dei singoli che si sono fatti piccola moltitudine, delle eccezioni, delle indignazioni viola, delle agende rosse. Non parlo dei non pochi che si ritrovano (anche) in questo giornale. Non parlo di chi ci ha provato, ci prova, ci proverà.
Giorgio Gaber, di lì ad andarsene, disse che la sua generazione aveva perso. Però ci aveva provato. La mia, quella degli attuali 35-40enni, onestamente non lo so. Se ci guardiamo indietro, quel 1992 – e quelle bombe che continuarono a colpire Accademie e giornalisti – pare così lontano. Quasi dimenticato. Chi ancora si commuove, è fuoriluogo e certo ritenibile patetico. Non so come stia la generazione dei ventenni. Non so neanche se sia giusto parlare di generazioni. Si rischia la generalizzazione e per quelle ci sono i paolocrepet o le canzoni di Ligabue. So che potevano quantomeno essere gabbiani ipotetici e che invece – mai come adesso – non siamo che due miserie in un corpo solo.
Quando Paolo Borsellino è andato incontro alla fine con eroismo fermo, sperava di provocare uno scatto. Immagino sia ciò che ha pensato anche Peppino Impastato. Scatti che andassero oltre il cordoglio del momento, i funerali gremiti, i buoni propositi. Invece non è successo (quasi) niente. In questi 19 anni abbiamo visto lo svilimento della sinistra, l’esplosione purulenta del berlusconismo. La morale a livelli minimi. Il giornalismo sputtanato. La dimenticanza eletta a vanto civile. Le macerie di Via D’Amelio sono diventate quelle di un paese intero.
Forse la morte di Paolo Borsellino è stata vana. Forse le nostre generazioni hanno perso. E neanche possono dirlo con quel retrogusto dolciastro che lascia l’orgoglio.