Un giorno a suo dire «umiliante». Il giorno che ha visto Rupert Murdoch, il magnate che controlla l’informazione in mezzo mondo, l’uomo dal valore di miliardi di dollari, dover rispondere alle domande di parlamentari qualsiasi, ignoti ai più, ma non per questo meno potenti. Oggi è andata in scena, a Londra, la sessione della commissione d’inchiesta Cultura e media della House of Commons, seduta che ha visto sul “banco degli imputati” il tycoon, suo figlio e i loro sodali. «I giornali non dovrebbero mai infrangere la legge», ha detto, fra i sorrisini del pubblico, l’ottantenne Rupert, mentre le sue televisioni mandavano il tutto in diretta senza filtri. Ma almeno un suo giornale avrebbe fatto eccezione a questa regola, visto che il tabloid News of the World è stato chiuso in fretta e furia dopo aver intercettato illegalmente, negli anni, quasi 4mila persone.
Durante la diretta, anche un piccolo giallo. Un ragazzo ha cercato di attaccare il magnate, per gettargli in faccia un piatto pieno di schiuma da barba, o forse panna, ma è stato prontamente bloccato da uomini di sicurezza e dalla moglie Wendi. Si tratta di un attivista di UK Uncut, l’associazione di giovani che, da mesi, protesta contro la fuga all’estero dei capitali britannici. Come risultato, seduta sospesa e Rupert quasi impassibile.
Come era rimasto impassibile, venti minuti prima, quando il figlio James aveva risposto alla domanda più diretta di tutta la sessione. Alan Keen, del Labour, gli aveva chiesto: «Insomma, chi è responsabile per tutta questa vicenda?». E l’ultimogenito di Rupert, con un giro di parole che tradiva il disagio, aveva detto: «Che io sappia, certe cose erano sconosciute».
Tutta la difesa dei Murdoch, insomma, oggi ruotava attorno a un punto: le alte sfere non sapevano, o meglio sapevano solo di piccoli eventi e niente più. Nessuno ai piani alti immaginava quello che stava succedendo e, come Rupert ha più volte detto, «ci siamo fidati di gente che conoscevamo da anni». Una fiducia che potrebbe costare caro. Oggi il Wall Street Journal, giornale degli stessi Murdoch, ha riportato la notizia di una possibile fuga dal mondo dei media del tycoon. E a Londra i bookmaker, in un paese dove si scommette su tutto, danno per certa la “fuga” di Rupert entro la settimana. Il News of the World potrebbe non essere quindi l’unica vittima del mondo dell’informazione. Anche se in commissione lui ha negato: “Non me ne vado, sono stato tradito e sono la persona più adatta a fare pulizia”. Di sicuro la famiglia ha già dovuto dire addio al controllo totale di BSkyB in Gran Bretagna, il canale satellitare dagli enormi profitti e dalla grande appetibilità.
Intanto, oggi, l’umiliazione dell’anziano Rupert ha preso la forma di decine e decine di domande. Che legame c’è fra Rebekah Brooks e la chiusura di News of the World? Che cosa sapevate? Quanti soldi giravano dietro questi affari? Quali sono i legami con i direttori dei vostri giornali? E così via. A tutte le domande padre e figlio annuivano, «queste sono accuse molto serie sulle quali bisogna indagare», dando ragione apparentemente ai parlamentari ma rispondendo raramente sul merito delle questioni. Anzi, più di una volta Rupert aveva provato a dire di non aver mai saputo nulla di concreto delle intercettazioni illegali, esternazioni subito rigettate dai componenti della House of Commons.
Nel mentre la vicenda si amplia sempre di più, coinvolgendo sempre più persone. Dal capo di Scotland Yard, Paul Stephenson, che si è dimesso due giorni fa, al capo dell’antiterrorismo, John Yates, che ieri ha rinunciato al suo ruolo. I media britannici indagano sempre di più sui rapporti fra polizia, mondo dell’informazione e politica, con un primo ministro David Cameron che impiegava allegramente ex giornalisti di News of the World come suoi consulenti e che, dicono in molti, «non poteva non sapere». Così come, in molti, hanno cercato di tirare in ballo anche il potente sindaco di Londra Boris Johnson, che della Metropolitan Police è il tutore morale. Qualcosa di più, insomma, di una semplice macchia sul buon nome del giornalismo britannico.
di Matteo Impera