Anche nella turbolenta provincia di Helmand la responsabilità della sicurezza passa all'amministrazione locale. Ma le squadre addestrate dagli americani finiscono sotto accusa per ripetute violazioni dei diritti umani
Lashkar Gah, che ha circa 50 mila abitanti, è considerata relativamente tranquilla. Non così il resto della provincia di Helmand, che è sotto il comando del contingente britannico. La gran parte dei diecimila soldati di Sua Maestà stanziati in Afghanistan sono concentrati nell’Helmand, dove hanno preso parte a tutte le principali offensive contro le roccheforti della guerriglia. La Transition strategy, decisa dalla Nato al vertice di Lisbona del novembre 2010, prevede che esercito e polizia afgani si facciano carico della sicurezza, con le truppe Isaf che si limitano a un ruolo di supporto. In teoria, la Transizione dovrebbe essere completata entro il 2014 e per quella data il governo britannico spera di poter ritirare tutte le truppe presenti in Afghanistan, dove sono di sicuro il contingente internazionale meno sopportato, dopo quello degli Stati Uniti, a causa delle passate intromissioni dell’Impero britannico nella vita del paese.
L’ultima vittima britannica è di sabato scorso. Un soldato è stato ucciso, pare da un uomo con una uniforme dell’esercito afgano, durante un pattugliamento poco fuori da Lashkar Gah. Mentre lunedì, appena oltre il perimetro dell’area considerata sicura e che da oggi viene consegnata all’esercito afgano, sette poliziotti afgani sono stati uccisi al check point che presidiavano. Nonostante questi segnali, però, la Nato è convinta della sua strategia, anche se un nuovo piano strategico per l’Afghanistan è in fase di elaborazione e dovrebbe essere pronto per ottobre, mese del decimo anniversario dell’inizio dei bombardamenti sul paese centroasiatico, avviati il 7 ottobre del 2001.
La nuova strategia, stando alle poche indiscrezioni finora filtrate, dovrebbe prevedere anche una presenza militare internazionale ben oltre il 2014, tanto che nel governo e nel parlamento britannici già si levano voci contro una data «rigida». La Commissione difesa della Camera dei Comuni, per esempio, pochi giorni fa ha criticato la decisione di indicare una data certa per il ritiro, perché in questo modo, secondo i deputati, si danneggia la credibilità dell’azione internazionale e perché sul campo «c’è ancora molto da fare». Il «molto da fare» riguarda anche, e in modo essenziale, il grado di preparazione dell’esercito e della polizia afgani, ancora ben lontani dall’essere una forza militarmente efficace contro i talebani e politicamente credibile per la difesa dei civili afgani. Tutt’altro.
Un’inchiesta pubblicata mercoledì dal quotidiano The Independent racconta dell’esistenza di unità speciali dell’esercito afgano, addestrate direttamente dalla Cia statunitense, impiegate in operazioni particolarmente «audaci» contro i guerriglieri ma anche gravate da pesantissimi sospetti per le violazioni dei diritti umani contro i civili e contro presunti talebani nel corso delle operazioni. Secondo questa inchiesta, il principale teatro di impiego di questi reparti paramilitari sono proprio le province meridionali dell’Afghanistan, Helmand e Kandahar in particolare, dove è attivo la Kandahar Strike Force, 400 uomini responsabili anche di raid in territorio pakistano.
Non basta, comunque, la presenza di questi reparti a garantire la sicurezza. A Kandahar mercoledì altri quattro poliziotti afgani sono stati uccisi da un gruppo di guerriglieri. Tra le vittime, anche il comandante di un distretto di polizia, mentre altri tre agenti sono rimasti feriti. Secondo Siddiq Siddiqi, portavoce del ministero dell’interno afgano, gli agenti avevano assalito una casa di Kandahar dove si trovava un gruppo di guerriglieri, tra cui un presunto leader talebano conosciuto come mullah Kar. Kar sarebbe morto assieme a tre dei suoi uomini che, secondo l’intelligence afgana, erano impegnati a preparare qualche nuova azione eclatante come l’assassinio di Ahmed Wali Karzai.
I dettagli pubblicati dall’Independent sulla Kandahar Strike Force rafforzano le notizie che circolano sulla stampa internazionale a proposito della svolta che il Pentagono vorrebbe imprimere all’impegno militare in Afghanistan. L’idea è quella di trasformare una guerra di controllo del territorio, con grande dispendio di truppe, lunghe linee logistiche e grande impegno finanziario, in una «guerra a bassa visibilità», affidata soprattutto alle operazioni di controguerriglia e alle forze speciali, internazionali e afgane. Il successo del blitz contro Osama bin Laden, all’inizio di maggio, ha di certo dato più credibilità a questo approccio, che però sconta il limite di essere concentrato, di nuovo, solo sul lato militare della vicenda afgana.
Bisognerà attendere il prossimo vertice della Nato, in autunno, per capire cosa ha in mente l’Alleanza che in Afghanistan si sta giocando molta della propria credibilità. Mentre per capire che cosa intendono fare i paesi che si sono impegnati a ricostruire l’Afghanistan e a non lasciarlo andare alla deriva anche dopo il ritiro delle truppe, bisognerà aspettare il 5 dicembre, quando a Bonn si riuniranno i rappresentanti di decine di paesi e organizzazioni internazionali per tracciare il bilancio di dieci anni di guerra e promesse non mantenute.
Joseph Zarlingo