“Perché nessuno ci ha pensato prima?” verrebbe da dire… Roberto Perotti, autore indimenticato de L’Università truccata e Luigi Zingales, che come cura d’urto ha proposto di vendere tutto il patrimonio immobiliare pubblico non necessario al funzionamento dell’amministrazione (misura quanto mai opportuna, soprattutto in momenti di contrazione del mercato immobiliare, quando puoi sperare forse di recuperare le bucce delle banane che hai già mangiato e digerito…); Perotti e Zingales, dicevo, propongono sul Sole 24 Ore la loro ricetta semplice semplice per il pareggio del bilancio corrente dello Stato, allineando una dopo l’altra una serie nutrita di misure che qui sarebbe troppo lungo descrivere puntualmente. Va detto soltanto che si tratta di misure che, dietro una patina di rigore e di demagogia, sono del tutto prive di quella progressività che, quando si parla di imposizioni di tipo fiscale, dovrebbe essere la norma, se non altro perché è la stessa Costituzione a imporlo.
In particolare, colpisce l’adesione a quella che ormai si sta configurando come una vera e propria moda tra alcuni economisti italiani: proclamare la necessità dell’aumento delle rette universitarie per ottenere un risparmio, udite udite, di almeno 3 miliardi. Qui si tocca l’ennesimo punto dolente, quasi una fissazione per gli autori. Il tutto si fonda sulla presunzione che l’università sia frequentata “soprattutto dai ricchi”, che è obiettivamente una stupidaggine: vera forse se si prendono ad esempio università private come la Bocconi, ma assolutamente falsa se solo si infila il capo nella realtà di una normale, civilissima e affollata università pubblica. E’ soprattutto il ceto medio a pagare le rette universitarie, un ceto medio-basso, che vede nell’università un ascensore sociale fondamentale. Il fatto che questo ascensore funzioni a balzelloni spinge a lavorare sulla qualità e non giustifica la dichiarata necessità di aumentare le rette universitarie.
Una vecchia lezione einaudiana, ormai dimenticata, indicava nell’istruzione e nella formazione una spesa fondamentale per lo stato, un onere irrinunciabile; gli autori invece cercano ormai da tempo, in alleanza e fattiva collaborazione con altri (i fratelli Ichino, ad esempio) di mutare la spesa per istruzione scolastica e università e ricerca in una voce da sottoporre alla logica del profitto. Non c’è profitto in un investimento nella scuola e nell’università, solo l’attesa e la speranza di creare cittadini migliori, più istruiti, consapevoli e coscienti. Poi anche quella quota di insegnanti e formatori necessari a una società industriale evoluta; scienziati, ricercatori e studiosi. L’istruzione è un costo fondamentale e irrinunciabile, non delegabile alle famiglie (che già la pagano versando le imposte all’erario), tanto meno a ipotetici prestiti studenteschi e a improvvisate “fondazioni per il merito”.