“Never judge a book by its cover”: mai giudicare un libro dalla sua copertina, come dicono gli inglesi, ma la foto di Marilyn Monroe intenta a leggere Joyce, scelta appunto come copertina del saggio Estetica della letteratura, di Massimo Fusillo (Il Mulino, 2009, 14 Euro, collana “Lessico dell’estetica”), dovrebbe vincere un premio apposito. E all’ottima scelta grafica corrisponde stavolta anche uno splendido testo, un raro esempio di come si possa fare critica letteraria dicendo poche cose, ma dotate di gran senso. Fusillo riesce nell’impossibile: riassumere alcuni secoli di pensiero critico sull’estetica, fornendo un manualetto che universitari e dottorandi troveranno prezioso, ma che si lascia leggere con relativa scioltezza anche dai profani.
Il testo si divide in due parti, anche se io ho avuto l’impressione che fossero almeno tre, con la digressione sul postmoderno a elemento terzo. La prima parte traccia un profilo dell’estetica da Aristotele a Derrida. Maggiore rilevanza è data alla Poetica di Aristotele e alla “rivoluzione romantica”, con un’interessante digressione sull’estetismo di Oscar Wilde.
Il postmodernismo (parola-chiave della critica letteraria, etichetta sulla quale quasi tutti hanno detto di tutto, al punto che Umberto Eco nelle Postille al Nome della Rosa ha dequalificato come “un termine buono à tout faire”) è offerto come categoria valida in diverse epoche e spiegato come “un nuovo stile”, distinto dunque dall’epoca “che inizia con la modernizzazione radicale degli anni Cinquanta”, e chiamata “postmoderno”. Spiega Fusillo: “Che il postmoderno sancisse la fine della storia era solo una formula facile.” (100) In realtà si spegnevano realmente “i modelli teleologici (le cosiddette grandi narrazioni, in primis il marxismo): l’idea che la storia vada sempre e inesorabilmente verso un fine ultimo.” Questa trasformazione, dice l’autore, “ha cambiato radicalmente anche il ruolo dell’arte e della letteratura: non a caso il postmoderno è stato definito come ‘antiestetica’” (100).
Fusillo fa quindi notare come siano cadute, nel postmoderno, una serie di grandi opposizioni binarie del passato, cosa che ha indispettito il critico marxista Eagleton, il quale ha visto in quest’epoca postmoderna un’ulteriore illusione che offusca la prospettiva utopica socialista. Jameson, invece, ha dimostrato secondo Fusillo “come anche nella frantumazione postmoderna ci sia spazio per la dimensione dell’utopia”(101) al limite elaborando delle mappe cognitive.
Su questo panorama di frammenti si è poi inserita la critica femminista, quella gay e lesbica, quella afroamericana e post-coloniale che, dice Fusillo, “hanno superato un primo atteggiamento di rivendicazione della differenza, giungendo invece a una visione ibrida e performativa dell’identità, fino al radicalismo dei queer studies, che propugnano l’indifferenziazione, il travestitismo, il superamento dei binarismi.” (101). In ogni caso questa produzione ha ampliato di molto i confini della critica letteraria e ha portato anche alla nascita di materie ibride, come il neostoricismo (il raccontare le vicende storiche anche analizzando le produzioni culturali di ciascuna epoca, e risalendo da queste alla costruzione della storia stessa).
Per quanto riguarda la critica letteraria postmoderna, Fusillo si rifà alle tre caratteristiche scovate da Ceserani in Raccontare il postmoderno:
a) un soggetto indebolito, riprodotto soprattutto nella sua realtà di corpo;
b) una temporalità tutta schiacciata nel presente;
c) un feticismo delle merci.
La seconda parte del saggio riassume il dibattito lungo i principali assi che formano la comunicazione letteraria (autore, lettore, testo, genere) e offre infine una mappa di binomi chiave per fondare un lessico dell’estetica postmoderna. A mio modo di vedere i due più interessanti di questi binomi sono “camp/queer” e “pastiche/remake”, se non altro perché tra i critici italiani non si sente parlare spesso di camp e queer, e in fondo nemmeno poi così tanto di pastiche e remake.