Oltre il muro di Gerusalemme anche l’amore può diventare un incubo. Quando 13 anni fa Sana, cittadina araba israeliana, ha sposato Mohammed non poteva certo immaginare che questa unione l’avrebbe portata a una vita di paura e clandestinità. La Knesset (il parlamento israeliano) ha infatti approvato la richiesta del primo ministro Benjamin Netanyahu di estendere per un altro anno il divieto alla riunificazione familiare che vieta la cittadinanza israeliana (e anche la semplice residenza), a palestinesi, libanesi, iracheni, iraniani e siriani sposati a cittadini dello Stato ebraico.

David Rotem, del partito nazionalista Yisrael Beitenu e membro del comitato Legge e Giustizia della Knesset, ha sottolineato come la cittadinanza ad arabi sposati a cittadini israeliani non sia un diritto garantito. Opinione condivisa anche dal rabbino Nissim Ze’ev, rappresentante del partito ebraico ultra-ortodosso Shas che ha detto come Israele non possa “ignorare il fatto che qualcuno di quelli che hanno ottenuto la cittadinanza israeliana dopo aver sposato dei cittadini israeliani stava dietro agli attacchi compiuti in Israele”.

Prima per Sana e Mohammed vivere insieme non era un problema, anche se avevano dei permessi di residenza diversi. Lei viveva a Gerusalemme est con un permesso temporaneo e spostarsi fra la città e i territori palestinesi era tutto sommato facile. Ma con la seconda Intifada del 2000 le restrizioni di viaggio si sono gradualmente inasprite fino a al 2003, quando lo Stato ebraico ha smesso di rilasciare i permessi di residenza a Gerusalemme ai palestinesi. Da allora i coniugi non sono più stati in grado di convivere liberamente.

Nel 2005 a Sana è scaduto il permesso e ha ricevuto l’ordine di espulsione dalla città. “È dal 2003 che vivo illegalmente a Gerusalemme con mio marito e i miei figli”, ha detto Sana all’agenzia AFP news, “ho lasciato la città per un breve periodo ma poi sono rientrata e ho cominciato a vivere nascosta insieme a loro, che invece hanno i permessi”. “Raramente lascio la mia casa”, continua Sana “vado solo dal medico o a parlare con gli insegnanti dei miei figli. Quando sono vicino a un posto di polizia o ai soldati sono terrorizzata. Vivo nella preoccupazione costante, con la paura che la polizia rastrelli il mio quartiere, mi trovi e mi arresti. Sarei espulsa di nuovo e non potrei vedere i miei figli. Il resto della mia famiglia, i miei fratelli e le mie sorelle, vive a meno di 20 minuti da me ma non posso vederli, eccetto che per qualche morte o grave malattia. Noi viviamo isolati”.

Il veto, istituito nel 2003 come misura di emergenza per “motivi di sicurezza”, è stato criticato dalla Corte Suprema israeliana, ma i governi successivi lo hanno confermato.

Hassan Jabareen, fondatore dell’organizzazione Adalah, che difende e promuove i diritti degli arabi-israeliani – circa il 20% della popolazione -, e i palestinesi che vivono nei Territori occupati, dice che da quella data la situazione per persone come Sana è molto peggiorata: “È passata una legge che impedisce ai cittadini israeliani di vivere come una famiglia se sposano i palestinesi dei territori occupati o i cittadini dell’Iran, dell’Iraq, della Siria o del Libano”. E continua: “La situazione è molto peggio di prima. Anni fa abbiamo fatto istanza alla Corte Suprema, ma stiamo ancora aspettando la sentenza”.

Come riporta un documento del 2006 di B’Tselem, un centro di informazione israeliano per i diritti umani nei Territori occupati, lo stato di Israele si è rifiutato di esaminare più di 120.000 richieste di riunificazione familiare. L’organizzazione accusa Israele di adottare questa politica “per ostacolare l’aumento della popolazione araba in Israele in modo da preservare il carattere ebraico dello Stato”.

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