Certamente il clima culturale di centrodestra favorisce punte di orgoglio nazionale anche in un momento in cui ci sarebbe ben poco di cui andare orgogliosi, ma agli occhi di un pubblicitario tutto questo appare comunque irrimediabilmente vecchio e banale. Dal punto di vista strettamente tecnico, non c’è nessuno scatto creativo: nel nostro campo, l’uso del testimonial è considerato il livello più basso della creatività. Potremmo aggiungere anche dell’argomentazione, visto che si basa su una figura retorica che i logici classificano come ragionamento scorretto, l’argumentum ad verecundiam, ovvero il ricorso all’autorevolezza di qualcun altro: così come un’affermazione fatta da un personaggio autorevole non significa che questa corrisponda al vero, il fatto che un prodotto sia usato da un personaggio famoso non significa che sia necessariamente buono.
Ma tant’è. Sappiamo per esperienza che le campagne di questo tipo nascono da mille compromessi e lunghissime dispute col cliente, per cui non ce la sentiamo nemmeno di dare tutta la responsabilità all’agenzia per questo modestissimo risultato. Sappiamo anche quante riunioni occorrano prima di concordare strategia e proposte creative col management. Proviamo allora a immaginare che cosa possono essersi detti in sede di presentazione. Fra le varie proposte, sicuramente l’agenzia ne avrà portato una anche con i famosi testimonial. Per sicurezza, non si sa mai. Prima di vederla, il cliente avrà chiesto quale fosse la strategia di comunicazione e l’agenzia deve averla sintetizzata più o meno così:
“Facciamo volare gli italiani che volano alto“. Risposta: “E gli altri che sono, figli della serva?”. “Ma no dottore, volevamo appunto dire che dietro agli italiani che volano alto c’è una grande compagnia aerea”. “No, non è chiaro”. “Come si usa dire, dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna”. “Alitalia non è una donna, è una compagnia aerea”. “Ah, certo dottore, era solo una metafora“. “Noi non vendiamo metafore!”. “Ma naturalmente… mi spiego meglio: se gli italiani che volano alto scelgono Alitalia significa che anche Alitalia vola alto… capito il doppio senso?”. “E dov’è il collegamento?”. “Nei testimonial! Abbiamo pensato di far vedere personaggi famosi colti in momenti di ispirazione, mentre volano con la fantasia…”. “Non devono volare con la fantasia, devono volare con Alitalia!”. “Ma certo, dottore, questo è implicito”. “E allora dev’essere esplicito! Qui, come dite voi, si vola alto ma in termini concreti e non metaforici!”. “Certamente, dottore”. “Ah, e la Abbagnato me la dovete mettere al check-in, capito?”. “È esattamente quello che intendevamo fare, lei ci ha tolto le parole di bocca, dottore”.
Ovviamente, possono esserci state discussioni ancora più complesse sul piano strategico. Comunque sia andata, il risultato finale è quello che conta: una campagna banale. Ma siccome siamo in un paese dove difficilmente si accettano le critiche che anzi vengono viste con sospetto perché “probabilmente celano interessi particolari”, oppure sono “di parte”, portiamo altri esempi. Vediamo come affronta lo stesso tema un’altra grande compagnia: Air France (guarda la campagna). La pagina si fa notare subito per l’eleganza del lay out. Poi c’è un tocco di classe proprio al centro dove cade l’occhio: un dettaglio nel vestiario della protagonista “punta” verso il marchio come se fosse l’ago di una bussola, a indicare una scelta spontanea, quasi inconscia, da parte del consumatore che pretende qualità nel servizio. L’impianto è di una essenzialità ed efficacia ben lontane dalla nostra pacchianeria nazionalpopolare. Lo slogan di marca riassume la mission : “Faire du ciel le plus bel endroit de la terre” (fare del cielo il più bel posto della terra). Come si conviene ad una grande compagnia che voglia comunicare qualità ed eccellenza. Ed Air France lo fa con splendida nonchalance. Già immaginiamo i commenti se una campagna del genere fosse stata presentata ad Alitalia: “Ma che roba è? Mica vendiamo scarpe e lingerie!”. E sarebbe stata scartata subito.
Il fatto è che oggi perfino i paesi che con la nostra solita arroganza definiremmo “del terzo mondo” riescono a produrre creatività migliore della nostra. Prendiamo ad esempio la campagna delle linee aeree dell’Ecuador. Nonostante l’Ecuador non sia certamente la mecca della pubblicità e abbia risorse culturali che non sono nemmeno lontanamente paragonabili alle nostre, i loro pubblicitari ci stupiscono con una campagna spettacolare. I protagonisti hanno ali composte dalle immagini dei luoghi che vogliono visitare. Le “ali” appartengono al mondo dei desideri ma è grazie alla compagnia aerea che questi desideri si materializzano e diventano il mezzo di trasporto con cui raggiungere i luoghi desiderati. È come un invito a esprimere qualunque desiderio, a cui la compagnia aggiunge: “Al resto ci pensiamo noi”. Ma senza bisogno di dirlo (come fa invece Alitalia): non occorre, quando la comunicazione è già così potente. Anche qui viene spontaneo immaginare che cosa avrebbero detto i dirigenti della nostra compagnia di bandiera se gli fosse stata presentata una campagna come questa. Anzi, che cosa non avrebbero detto. Il primo impatto col visual avrebbe causato sicuramente il silenzio imbarazzato di chi forse è abituato a forme di comunicazione più didascaliche e piatte. Dopo qualche minuto, il più giovane dei manager avrebbe rotto il silenzio chiedendo timidamente: “Ma… non potremmo metterci dei testimonial?”, raccogliendo sguardi di approvazione e di sollievo da parte dei superiori. Vecchia storia.
È vero che in questo caso i testimonial sono stati usati in un modo appena più intelligente del solito. Cioè, non sono loro a raccomandare direttamente il prodotto ma è la compagnia a parlare lasciando intendere che se è in grado di soddisfare gli italiani più esigenti in fatto di “volo” sicuramente è in grado di soddisfare tutti gli italiani. Ma è una sfumatura impercettibile in una cultura pubblicitaria dove imperversa l’uso più becero del testimonial, da Valentino Rossi a Christian De Sica, da Aldo, Giovanni e Giacomo, a Paolo Bonolis. Ebbene, da una grande azienda italiana che ha come obiettivo prioritario quello di rilanciarsi sul mercato internazionale ci si aspetterebbe di sicuro più grandeur dei francesi, più creatività degli ecuadoriani e meno retorica. Invece, alla fine, vien da chiedersi: quando la smetteremo di campare di millantato credito (in questo e in tanti altri campi) appoggiandoci sul mito dei “grandi italiani” se poi, nella media e individualmente, riusciamo a produrre poco più che mediocri risultati? Proviamo a darci delle risposte.