In debito con il fisco ma in credito con lo Stato. E’ l’assurda situazione in cui si trovano da tempo molti enti no profit sprofondati ormai in un circolo vizioso senza logica. Così un settore che dà lavoro a 1,2 milioni di cittadini finisce per andare letteralmente a fondo
Ci sono delle volte in cui lo Stato sembra dimenticarti, mettendo da parte la certezza dei tuoi diritti, ignorando le tue richieste legittime, dimenticando l’importanza del tuo ruolo. Ci sono volte, al tempo stesso, in cui la macchina pubblica pare avere attenzione solo per te, come se tu fossi, in apparenza, il suo unico oggetto di interesse e lei, va da sé, il tuo incubo quotidiano. E poi, infine, ci sono occasioni in cui i due momenti si presentano insieme, senza alcuna logica apparente, facendoti crollare in una sorta di psicosi burocratica. Un contesto da barzelletta, talmente assurdo da evocare le più insensate leggende metropolitane sull’Italia “che non funziona”. Se non fosse che, a differenza di una leggenda, è tutto incredibilmente vero. E, a differenza di quanto accade nelle barzellette, qui non c’è davvero niente da ridere. Un po’ come in questa storia.
IL CASO SAMAN
“Ecco le nostre spese sulle cartelle esattoriali: alla chiusura del bilancio 2010 ci sono costi per spese cartella di circa 920 mila euro. Che cos’è questo se non un furto legalizzato?”. Milano, estate 2011. A Lorella Raggi è toccato un compito ingrato: svolgere il ruolo di tesoriera per Saman, un ente non profit costretto a fare i conti con un vero e proprio assurdo contabile. I guai iniziano nel 1995 quando l’ente, una comunità terapeutica con varie sedi in Italia, viene travolto da uno scandalo finanziario. Franco Cardella, cofondatore dell’organizzazione (insieme a Elisabetta Roveri e Mauro Rostagno, storico attivista torinese ucciso dalla mafia nel 1988), viene arrestato con l’accusa di malversazione, truffa, e appropriazione indebita. Sentendosi danneggiata, Saman si costituisce nel processo contro il suo stesso socio che di lì a qualche anno sarà condannato a 3 anni e 8 mesi (che, grazie a una fuga in Nicaragua, non sconterà mai). Ma invece di ottenere un risarcimento danni, Saman deve fare i conti con le pendenze fiscali: al cambio attuale quasi tre milioni di euro sottratti all’erario nel solo 1989 cui si aggiungeranno negli anni anche i ritardi accumulati dall’associazione per l’impossibilità di riscuotere i crediti con gli enti pubblici. In totale si arriva a 4,7 milioni.
Saman ha già ripagato buona parte (con tanto di more) ma deve ancora 1,8 milioni e questo, nonostante lo Stato debba ancora all’associazione una cifra compresa tra i 3,3 e i 3,4 milioni di euro. Sono le fatture mai saldate dagli enti pubblici come “i circa 350 mila euro della Regione Calabria e i 7-800 mila della Campania” che, in alcuni casi, risalgono addirittura al 2008. Una data forse non casuale. Risale infatti al marzo di quell’anno una legge voluta dall’allora ministro dell’Economia e delle finanze Tommaso Padoa Schioppa per obbligare le pubbliche amministrazioni a verificare presso l’agenzia delle Entrate se le aziende o il singolo creditore cui dovevano liquidare fatture singole superiori ai 10 mila euro avessero qualche pendenza con lo Stato. Ed ecco la scappatoia perfetta: chi non possiede un Durc, il documento rilasciato dal Fisco che attesta la regolarità contributiva del soggetto, non può essere pagato. Ma chi non viene pagato non può materialmente versare in tempo l’intero ammontare delle imposte, a cominciare dai contributi sugli stipendi dei suoi dipendenti e, di conseguenza, non può ottenere il Durc. Sembra un romanzo di Joseph Heller. E infatti, a modo suo, lo è. “In Italia (dove la stima del debito da parte delle pubbliche amministrazioni si aggira sui 114 miliardi di euro, ndr) il provvedimento ha sortito l’effetto ‘Comma 22’ – spiega il presidente di Saman, Achille Saletti – : io, azienda, non ti posso pagare perché tu non mi hai pagato. Bloccando quanto mi devi non ti potrò più pagare”.
IL RUOLO DI EQUITALIA
Privati per legge della possibilità di fallire e di fare quindi ricorso a un “curatore”, gli enti no profit si trovano quindi a fronteggiare senza alcuna difesa il loro esattore: Equitalia, la società pubblica creata nel 2007 e partecipata in parti quasi uguali dall’Agenzia delle Entrate (per il 51%) e dall’Inps (49%). Tra i suoi compiti, ricorda Gianpaolo Concari, ragioniere commercialista ed esperto di fiscalità degli enti non profit, tutte “le misure di conservazione, come il fermo amministrativo di automezzi o le ipoteche su proprietà immobiliari, e di recupero, come il pignoramento di crediti o di immobili che pongono non pochi problemi a chi, paradossalmente, si ritrova ad essere creditore nei confronti di un debitore: lo Stato”. Nel corso dell’inchiesta ilfattoquotidiano.it ha contattato Equitalia per un’intervista senza ottenere risultati. Ci sarebbe piaciuto, ad esempio, sapere se è davvero abitudine dell’esattore “pignorare presso terzi i crediti, porre ipoteche su beni immobili e bloccare i conti correnti senza avvisare” come denuncia il presidente di Saman. Al tempo stesso avremmo voluto qualche chiarimento sulla scelta di accogliere le richieste di accertamento degli enti pubblici anche per le fatture inferiori ai 10 mila euro aggirando la norma attraverso il cumulo (da parte degli enti pubblici) di queste ultime fino al superamento della soglia di legge. Equitalia non ha escluso l’ipotesi di un’intervista ma per il momento ci ha lasciato in attesa. Restiamo a disposizione.
VIAGGIO NELL’ITALIA DEI RITARDI
Quello di Saman non è ovviamente un caso isolato. Le storie di difficoltà quotidiane per il terzo settore non mancano di certo anche se i protagonisti, quasi sempre, preferiscono non esporsi. “Se il Comune paga troppo tardi, con ritardi anche di sei/otto mesi o in qualche caso ben di più, la Onlus ne è strangolata – spiega A.D. (le iniziali sono di fantasia), un operatore di un ente no profit specializzato nell’assistenza ai migranti e attivo in una provincia del Nord Italia – . Questi ritardi si ribaltano in seguito sul fisco poiché può accadere che non riusciamo a versare in tempo i contributi dell’Inps. Quando finalmente il Comune decide di liquidare almeno in parte, si rivolge prima a Equitalia per sapere se è legalmente tenuto a pagarci oppure no. E siccome Equitalia comunica che siamo in ritardo con le tasse ecco che l’ente pubblico ottiene a norma di legge l’autorizzazione a non pagarci”. Per la cronaca: l’ammontare totale dei debiti della Onlus di A.D. con il fisco (more comprese) è di circa 15 mila euro. La somma dei crediti vantati dalla stessa con gli enti locali supera i 100 mila euro.
La crisi si sente al Nord ma è nell’Italia meridionale che le condizioni complessive diventano intollerabili. “Al Sud il 70 per cento delle organizzazioni non profit che lavorano con gli enti pubblici non ha il Durc in regola – spiega Luciano Squillaci, componente Consiglio di Presidenza della Fict (Federazione italiana Comunità Terapeutiche) – . E si tratta di una conseguenza evidente alla luce dei dati sulla struttura del settore. Nel 2005, data dell’ultima rilevazione, si calcolava che i 2/3 delle entrate del terzo settore venissero dagli enti pubblici. A quanto ammontano le sofferenze totali? La verità è che non lo sappiamo. Una stima complessiva non è mai stata fatta anche perché si tratta di un calcolo piuttosto complicato. Ma gli indizi negativi non mancano di certo”.
VORAGINE CAMPANIA
Peggio di tutti se la passa la Campania. “Quella che si è abbattuta sugli enti locali dell’area, la Regione e le Asl negli ultimi 12 mesi è un’autentica bufera” spiega Giuseppe Sottile, direttore della filiale partenopea di Banca Popolare Etica. Tra i casi più eclatanti del recente passato c’è quello di Gesco, una rete di enti no profit attivi nell’area. Nel dicembre del 2010, in risposta ai tagli della spesa sociale in Campania e ai clamorosi ritardi nella riscossione dei crediti vantati con gli enti locali, circa 300 operatori di Gesco occuparono l’area dell’ex manicomio Leonardo Bianchi di Napoli. L’allora presidente dell’associazione, Sergio D’Angelo, diede il via addirittura a uno sciopero della fame. Oggi D’Angelo si è dimesso dalla carica dopo essere stato nominato assessore alla Politiche sociali del Comune di Napoli nella nuova giunta De Magistris. “Negli ultimi 6 mesi non meno di 30 case famiglia hanno dovuto chiudere perché il Comune non pagava e la loro liquidità era ormai ampiamente esaurita”, spiega. I nomi però non li fa (“una questione di riservatezza”).
A Napoli, dove i tempi di pagamento del Comune arrivano anche a 36 mesi, la giunta Jervolino non ha fatto in tempo ad approvare il bilancio previsionale lasciandone l’onere ai successori. De Magistris e i suoi, guarda caso, hanno scoperto che le casse sono vuote e hanno trovato un ulteriore sbilancio di 130 milioni di euro “causato – ricorda D’Angelo – dagli ulteriori tagli effettuati da Governo e Regione”. E qui si apre un altro problema, che potremmo chiamare senza troppa fantasia “dello scaricabarile”. In pratica nessuno paga perché sono tutti senza soldi. Ma qualcuno, aggiungeremmo noi, dovrà pure prendersi la responsabilità di sostenere un settore assistenziale che impiega in Italia circa 1,2 milioni di persone e non può certo vivere di volontariato. Dal 2008 a oggi, il fondo nazionale per il finanziamento delle politiche sociali, ricorda Luciano Squillaci, si è ridotto di oltre il 70 per cento. Dal 2014 in avanti (grazie alla devolution del federalismo fiscale) i suoi capitali scenderanno a zero. A discapito degli enti no profit e dei suoi utenti, quelli, per intenderci, che non hanno la minima possibilità di trovare un’alternativa all’assistenza. “In passato abbiamo cercato di integrare tutti i soggetti più a rischio, oggi non è più possibile, non abbiamo le risorse. E alla fine dobbiamo mandarli via – spiega Lorella Raggi – . Io li vedo uscire ogni volta e so perfettamente che non ce la potranno fare”. Saman, ad oggi, ospita 250 persone che risiedono in modo permanente nei centri della comunità nei quali, complessivamente, passano ogni anno dalle 800 alle 1000 persone. Alcuni ci restano, altri se ne vanno. Qualcuno ritorna, qualcun altro no. E in quest’ultimo caso non sempre è una buona notizia.