Si sono trovati oggi a Predappio, comune guidato da una giunta di centrosinistra, non più di 200 nostalgici del fascismo, qualche giovane testa rasata e qualcuno che ai tempi del Duce è nato. Sono arrivati sull’Appennino forlivese in occasione dell’ultimo appuntamento di una tre giorni di celebrazioni iniziata venerdì 29, giorno in cui si ricorda la nascita di Benito Mussolini, della quale, quest’anno, ricorreva il centoventottesimo anniversario.
Colmo dei colmi, visto che don Urbano Tedaldi, il parroco del paese, si era dovuto assentare per un impegno, la tradizionale messa dell’aquila, che si è celebrata sabato in memoria del Duce, l’ha detta l’arciprete nigeriano don Martin. Una “faccetta nera”, ancor più nera della celebre “bella abissina”, ha commemorato il padre delle leggi razziali. “È andato tutto bene”, ha commentato padre Martin che assicura di non aver letto stupore o sdegno nei volti dei circa 50 presenti, anzi “alcuni di loro alla fine della funzione mi hanno anche ringraziato”.
Eppure erano in tanti i camerati sul sagrato di fronte alla cripta Mussolini a esibire fieri maglie con su scritto “L’Italia agli italiani”, “Italiani si nasce, non si diventa”, mentre ascoltavano l’arringa, a metà fra un’omelia e un comizio del cappellano fascista Giulio Maria Tam.
A Predappio sono arrivati simpatizzanti da tutta Italia: alcuni da città la cui storia è legata al Ventennio come Salò o Latina, giovani e meno giovani, in una sorta di pellegrinaggio reverenziale. Eternamente orfani “dell’unico uomo politico che ha saputo rendere grande l’Italia”, alle urne si trovano spiazzati: c’è chi si schiera senza pensarci con Roberto Fiore di Forza Nuova, chi strizza l’occhio alla Lega, della quale condivide l’atteggiamento xenofobo, ma non la secessione.
Durante il fascismo, nel paese collinare nato per propagandare il mito delle origini dell’uomo nuovo, si recarono tanti italiani che rendevano omaggio alla Betlemme laica d’Italia. Questo fino al ’43. Dopo la caduta del regime i pellegrinaggi cessarono finché il 30 agosto del 1957 il predappiese Adone Zoli, allora presidente del Consiglio, fece riportare nella casa natale la salma di Mussolini. Da allora il saluto al “fondatore dell’impero” è d’obbligo per i militanti in tre giornate dell’anno: il 29 luglio, il 28 aprile (anniversario della morte) e soprattutto il 28 ottobre, ricorrenza della marcia su Roma, quando la località è raggiunta da 3-4 mila persone.
A Predappio, dopo quasi 70 anni dalla caduta del regime fascista, rimangono negozi di souvenir un po’ kitsch e tracce architettoniche a ricordare l’operato di un ingombrante concittadino. L’amministrazione comunale ha dichiarato la sua estraneità a qualsiasi iniziativa di ricordo. Il sindaco Giorgio Frassineti ammette di dover lottare contro una damnatio memoriae dalla quale Predappio non è mai riuscita a liberarsi: “Predappio, stretta tra logiche commerciali e il compito di sanare le ferite del passato, rischia la banalizzazione, ma è possibile –si domanda il sindaco- che dopo tanti anni siamo ancora qui a darci dei fascisti e dei comunisti?”. Frassineti non ha dubbi: il suo modello è Adone Zoli che, scegliendo a quel tempo di riportare in paese le spoglie del Duce, “ha dimostrato saggezza politica, pietà cristiana e una volontà di conciliazione encomiabile”.
“La mia più grande fatica come primo cittadino di Predappio –aggiunge- è tutelarne l’immagine, poiché siamo vittima di pregiudizi e di una voglia scandalistica. Certo è che Predappio non può essere ridotto a una tomba e qualche negozietto. Il paese andrebbe inserito in un percorso dei luoghi che spiegano il ‘900 europeo”. Lo sa il sindaco Frassineti che i negozi di ammennicoli e memorabilia d’antan non aiutano a sdoganare un’immagine scevra da condizionamenti. Ma che farne? In fin dei conti sono parte dell’economia cittadina. E allora tocca tenersi anche il modellino di Mussolini che s’irrigidisce nel saluto romano, alzando il braccio grazie a un congegno elettrico, per non parlare del profumo “Nostalgia”, del perizoma “Boia chi molla” o dello shampoo “Me ne frego”, che pensando alla calvizie del Duce è un pregevole esempio di autoironia.
La tre giorni littoria di Predappio è terminata con la processione odierna di 1,5 km dalla centrale chiesa di S. Antonio a quella del cimitero monumentale di S. Cassiano. Una croce alta 5 metri, a ricordo dei Patti lateranensi, ha accompagnato i partecipanti che l’hanno poi innalzata davanti alla cripta della famiglia Mussolini e, alle 11, il “don” Giulio Maria Tam ha recitato il rosario.
Tam, simpatizzante del fascismo sin da adolescente, in famiglia aveva una zia, Angela Maria, che venne fucilata dai partigiani nel 1945. Si è formato nel seminario di Ecône del vescovo, scomunicato nell’88, Marcel Lefebvre ed è stato ordinato, nel 1980, da uno dei quattro vescovi lefebvriani, a
cui Papa Benedetto XVI ha rimesso la scomunica nel gennaio del 2009.
Don Tam non è un prete della Chiesa romana cattolica, dalla quale ha ricevuto la sospensione a divinis, che gli vieta di amministrare i sacramenti”, come ricorda Frassineti. Nel 1980, anno della sua ordinazione lefebvriana, Tam è stato un camerata che ha risposto alla chiamata di Dio con lo stesso entusiasmo di un crociato che si apprestava a riconquistare la Terra Santa agli infedeli. E di crociate ha parlato Tam per rivalutarne l’importanza e l’alto valore simbolico che hanno ora di fronte “all’invasione musulmana”.
“Altro che tornare sui propri passi e chiedere scusa, come hanno fatto gli ultimi pontefici, altro che pacifismo e porgere l’altra guancia: i preti oggi si dimenticano di ricordare ai fedeli che Gesù ha cacciato due volte i mercanti dal tempio”. Dire che Tam consideri infedeli i musulmani è usare un eufemismo. Per lui, devoto alla Madonna del Fascio, che saluta a braccio teso e definisce il suo abito talare “una camicia nera XXL lunga fino al calcagno” l’Islam è il nemico invasore. È questo il “don”, idolo dei camerati, scelto per commemorare il Duce, un uomo talmente a destra da considerare Wojtyla un modernista.
Un rosario nel cimitero di S. Cassiano è stata la massima concessione che il sindaco Frassineti ha potuto fare a Giulio Maria Tam, non potendo egli celebrare messa. E allora eccolo il discepolo disobbediente di Lefebvre, rosario alla mano, ha sgranato uno dopo l’altro, a suon di Ave Maria, i “50 colpi della mitragliatrice per respingere la civiltà islamica”.
Finita la funzione non c’è stato tempo per benedire fez e gagliardetti. La maschia virtù latina vuole essere nutrita e allora, dopo l’ultimo saluto romano nella cripta del Duce, via di filata in trattoria. Non fosse mai che la gita in Romagna si concludesse senza saggiarne le delizie gastronomiche.
Il video è di Giulia Zaccariello