Gian Vittorio Baldi è un “giovane” del 1930, libertario e combattivo. Si ritiene “un artigiano che cerca e non ha ancora trovato”. Nonostante sia conosciuto prevalentemente dagli addetti ai lavori, ha ricevuto oltre 100 riconoscimenti in tutto il mondo (due Leoni d’oro al Festival di Venezia, una nomination all’Oscar, un Nastro d’Argento e una Grolla d’Oro) e i suoi film sono stati oggetto di retrospettive in Francia, Finlandia, Cina, Stati Uniti e Brasile.
In qualità di produttore, Baldi ha al suo attivo 28 lungometraggi e 200 corti. Nel 1962 ha fondato una società indipendente, la Idi Cinematografica, per la quale ha prodotto film del calibro di “Cronaca di Anna Magdalena Bach” di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, “Porcile” e “Appunti per un’Orestiade africana” di Pier Paolo Pasolini, “Quattro notti di un sognatore” di Robert Bresson e “Vento dell’est” di Jean-Luc Godard (1969). È tornato da poco dal Brasile, dove si è recato per le riprese del suo ultimo film “Il cielo sopra di me”.
Dalle note di sceneggiatura sembra una grande riflessione sull’esistenza, sulle stagioni della vita e sulla morte, che è vista come un tornare a far parte di un tutto indivisibile. È questa la visione di Baldi sul destino dell’uomo?
“Penso che il transito dell’uomo sulla Terra sia talmente infinitesimale che il nostro compito è quello di agire il meglio possibile, cercando di portare avanti un discorso di umanità, nella convinzione che torniamo negli atomi e nulla rimane di noi, se non una piccolissima parte di quello che abbiamo fatto, se l’abbiamo fatto. Gregorio, il protagonista, conclude il film con una poesia: ‘Per favore fate silenzio, zitti, io non ci sono più. Sono ritornato nelle stelle’”.
Baldi, lei ha esordito al cinema, nel 1962, con “Luciano” che sviluppa un suo precedente cortometraggio del ’58. Lo stesso anno esce “Accattone” di P. P. Pasolini e “Banditi a Orgosolo” di Vittorio De Seta. Fellini ebbe un qualche ruolo nel vostro esordio?
“Federico Fellini a quei tempi aveva deciso di fare il produttore e ci aveva contattati tutti e tre, come talenti da lanciare. Dovevamo realizzare il nostro primo lungometraggio con un contratto di un milione a testa con la società Federiz (Federico Fellini-Angelo Rizzoli). In realtà nessuno dei tre fece il film perché lui ci ripensò e ognuno di noi lo realizzò con altri produttori”.
“Luciano” ebbe diverse traversie produttive e censorie. Ce le racconta?
“In ‘Luciano’ si affronta, tra l’altro, il tema dell’omosessualità dei preti. Ciò non ha fatto molto piacere alla censura di quel tempo. Anche ‘Porcile’, uno dei due film che ho prodotto a Pasolini, ha attraversato un brutto periodo o ‘Anni duri alla Fiat’, un film sulla repressione operaia alla fine degli anni ’60. ‘Luciano’ uscì solo nel ’67 in parte censurato”.
Nel suo manifesto “Tema e dettato” del 1953, lei porta avanti un’idea di cinema che mantiene un rapporto mimetico col reale: macchina a spalla, luce naturale, no al montaggio manipolatore, attori visti come modelli, no al commento musicale. Pare che il danese Lars Von Trier, con le 10 regole del suo “Dogma” (1995), fosse in ritardo di 40 anni…
“Sì, effettivamente il mio manifesto e “Dogma” sono simili. Io sono contrario al commento musicale: per me la musica non deve sottolineare l’azione, ma deve essere una componente espressiva dell’immagine. Per quanto riguarda gli attori non sono solo: Robert Bresson riteneva che l’attore dovesse essere non qualcuno che recita, ma che rappresenta e fa parte del racconto che il regista propone”.
Tatti Sanguineti ha detto che “prima di Baldi il documentario in Italia era un’altra cosa”. Lei è il primo a cui viene attribuito l’uso della presa diretta in Italia, nell’immediato secondo dopoguerra. Come nacque quest’esigenza di adottare un linguaggio differente?
“Il cinema diretto in Italia esisteva già. Durante il periodo fascista i film erano tutti in presa diretta ma girati nei teatri di posa, perché le macchine erano enormi. Finita la guerra siamo usciti dai teatri, andando verso la libertà con le macchine portatili. Poi si è abbandonato il sonoro e i film venivano realizzati in post produzione. I documentari, a quel tempo, erano davvero qualcosa che documentava. Io ho rotto questa tradizione e ho cominciato a fare dei racconti in presa diretta, che allora era una cosa folle, perché la macchina da presa faceva rumore, tant’è che noi dovevamo metterci sopra un cappotto”.
Come produttore ha finanziato, tra i più celebri, Pasolini, Bresson, Godard e Straub. Chi le è rimasto più impresso e con chi, invece, avrebbe voluto lavorare?
“Ricordo con grande affetto Pier Paolo Pasolini. Abbiamo avuto un rapporto di una straordinaria correttezza, umanità e sapienza. Era il poeta gentiluomo. Mi piace ricordare i grandi tentativi che ho fatto e credo di essere il più importante produttore del mondo, nel senso delle intenzioni, non delle realizzazioni. Ho tentato, senza riuscirci, di produrre i film di Dreyer. Ce l’avrei fatta se lui non fosse caduto nel bagno morendo, nel marzo del ’68. E non solo: ‘Erendira’ di Gabriel Garcia Marquez ero pronto a produrlo, poi Ponti, il distributore, si tirò indietro. Avrei dovuto produrre anche il primo film di Bernardo Bertolucci, che poi non è mai uscito”.
Quando nel ’69 comprò casa e terreno sulle colline vicino a Brisighella, decise di produrre vino. Che cosa la spinse a inventarsi viticoltore?
“L’esigenza di sperimentare il mio linguaggio in un’altra attività. Ho fatto un vino d’autore, come ho cercato di fare dei film d’autore. Il criterio numero uno era quello della trasgressione, trasgredire per creare, uccidere la tradizione nota, usata e abusata e cercare di andare verso un futuro più qualificato e prezioso. Oggi la Romagna è qualificata. Quando io sono arrivato su queste colline, 40 anni fa, chi faceva il vino bene ne faceva tanto. Io invece ho puntato sulla qualità, introducendo delle tecniche che ho appreso in Francia: vigne basse e diradate. Dopo di me, in Romagna, sono nate tante aziende, oggi se ne contano quasi 200 e fanno ottimi prodotti”.
Il suo amico Tonino Guerra sostiene che il vero autore di un film sia il regista, lei pensa invece che sia lo sceneggiatore. È modestia o avete entrambi sbagliato mestiere?
“Tonino Guerra è stato per Fellini e Michelangelo Antonioni importantissimo. Come Cesare Zavattini lo è stato per Vittorio De Sica. Fellini è un grande regista, ma non è un autore. Un regista può essere come un bravo direttore d’orchestra, che prende uno spartito e di questo fa ciò che vuole. Avendo io conosciuto per moltissimo tempo Ennio Flaiano, posso dire che è veramente un genio e che senza di lui Fellini non avrebbe mai potuto girare ‘8 e mezzo’ né ‘La dolce vita’. Si sarebbe limitato a dei racconti aneddotici di provincia, non sarebbe riuscito a volare così alto”.
Nel 1975 affermava: “Nel bene e nel male, il cinema va per conto suo. Il produttore, gli esercenti, il pubblico, i finanziatori fanno tutti parte della grossa macchina che sforna, quasi a caso, titoli su titoli. Per me, fuori di ogni pudore, è la grande passione della mia vita; nel farne provo un piacere fisico, sessuale quasi”. Oggi è ancora di quest’opinione?
“Sì, il film che sto per cominciare vorrei veramente che fosse il mio primo film, come il primo innamoramento, la cotta”.
Chi è oggi il poliedrico Gian Vittorio Baldi: un regista, un produttore, uno scrittore, un pittore, un viticoltore?
“Sono un umilissimo artigiano che, con quel poco che sa, cerca di fare cose diverse. Ho cercato anche di essere un buon padre e non so se ci sono riuscito”.