Al confine dell'area che dovrebbe attrarre milioni di visitatori c'è l'Ecoltecnica, uno dei più grandi impianti di smaltimento del Nord Italia, che tratta "materiale pericoloso, contaminante, esplosivo". Di fronte, un insediamento di nomadi impregnato di veleni. Ma il Comune di Milano forse ha usato vecchie mappe catastali e non se n'è accorto. Intanto spunta Bonifichexpo, un gruppo di aziende del settore che ha fiutato l'affare
Sono pronti a incatenarsi alle rispettive proprietà. Imprenditore e nomadi, tutti allertati per impedire alle ruspe di cancellare ogni cosa in nome dell’Expo. Per una volta sullo stesso piano, il titolare di una grande azienda che smaltisce rifiuti tossici e i rom che vivono d’espedienti su terreni ancor più inquinati. A rovinare questa originale fusione d’interessi per “contaminazione chimica” ci si mettono i signori delle bonifiche, pronti a fare lobby e a entrare in azione al primo segno di cedimento. Sono già qui, alle porte dell’area che nel 2015 ospiterà milioni di visitatori da tutto il mondo. Sulla carta si presentano con il volto benevolo di un’associazione “senza fini di lucro”, in realtà hanno l’appetito di chi ha una torta davanti che non ha mai visto.
Tutto questo succede sui terreni dell’Expo ma la città di Milano è distratta. Li ha comprati a peso d’oro e deve pensare a un ritorno economico. Non sogna più Parigi, il Bie, la valle degli orti della biodiversità ma va avanti a testa bassa, tiene il capo chino sui conti. Non guarda neppure davanti, non vede per terra. Ma è proprio lì, lungo il perimetro di tre campi, che sono già impressi tutti i segni premonitori di nuovi, funestissimi, guai. Lo sa bene l’imprenditore che difende con le unghie la sua fabbrica macina-veleni che i tecnici del Comune non hanno notato ma sta lì, lungo il muro perimetrale del futuro villaggio residenziale Expo dal 1985. E oggi la signora Marelli, esasperata, minaccia apertamente il Comune: “Sono pronta a incatenarmi ai cancelli e a ricorrere in tutte le sedi. Se chiudiamo mettano in conto altri 30 milioni”.
Là dove c’era l’erba
Si chiama Adele Marelli ed è il presidente di uno dei quattro impianti di smaltimento di rifiuti tossici più grandi del nord Italia, la prima ed unica ad aver adottato la recente normativa “Seveso” imposta dall’Europa. L’azienda fattura 30 milioni di euro l’anno e toglie le grane a mezza Italia raccogliendone le scorie e gli scarti industriali per trattarli e portarli all’estero, dove vengono smaltiti. Quando ha visto le cartografie del progetto Expo, la signora quasi cadeva dalla sedia. La sua fabbrica prima non c’era, a causa di un errore dei tecnici che hanno fatto il masterplan usando vecchi rilievi fotografici non aggiornati. “Gli risultava un’area a verde agricolo nonostante la fabbrica sia qui da molti anni e i dati catastali fossero correttamente aggiornati”. Una superficialità che non promette nulla di buono. Infatti il primo progetto su carta di Expo, una volta scoperta l’esistenza dell’impianto, ne prevedeva lo smembramento in due. “Una cosa impossibile per qualsiasi industria, figuriamoci per chi tratta materiale pericoloso, contaminante, tossico ed esplosivo”.
Tanti incontri con i tecnici, mai un’udienza dalla Moratti. “Tutti gentili ma abbiamo capito che a Palazzo Marino sfuggiva il problema. La fabbrica esiste e non si può ignorare, non puoi pianificare un villaggio residenziale a pochi metri dall’impianto di trattamento dell’amianto, non puoi progettare l’area “Lake Arena” per giochi d’acqua e fuochi d’artificio lungo il muro perimetrale dei depositi gassosi a rischio esplosivo”. La titolare a un certo punto ha perso la pazienza e ha opzionato un’area alternativa dove fosse possibile il trasferimento. Ma spostare impianti, sistemi di sicurezza e licenze è un’impresa costosissima.
Così non resta che calare l’asso della vendita. La Ecoltecnica, mettendo insieme stato patrimoniale e tutto il resto, sulla carta vale 30 milioni di euro che il Comune rischia di dover aggiungere ai 120 che ancora fatica a trovare per onorare l’impegno con i proprietari delle aree. “A questo punto noi abbiamo manifestato ogni disponibilità. Abbiamo detto che le due attività, antropica e industriale, sono incompatibili e che lo si vede anche dalle ipotesi di variante che di fatto bloccherebbe per sei mesi l’accesso all’area da parte dei camion con un danno di 15 milioni di euro. Ha anche proposto al Comune di vendere solo gli immobili al valore grezzo per dieci milioni, ma niente. O sei un Cabassi o niente. Così il destino di questa impresa che occupa 43 dipendenti e smaltisce le tossicità nazionali finisce per essere i bilico proprio come quello dei dirimpettai.
Campo rom sui veleni
Sono i rom jugoslavi, montenegrini, che hanno eretto un campo abusivo con le caratteristiche del villaggio, con casette quasi lussuose ricche di elementi ornamentali, box e così via. La Milano2 degli zingari. Sono lì dal 1994 quando i titolari di una cava – la famiglia Ronchi – hanno preferito liberarsi dei terreni che hanno usato come sversatoio a pagamento per tutte industrie chimiche della zona dagli anni Cinquanta in poi. Processi, ricorsi al Tar. Niente. I titolari ne escono puliti, i terreni sono peggio che sporchi. Sono una bomba ecologica con la miccia sempre accesa e pronta esplodere. Nessuno ci vivrebbe, forse gli zingari che non vanno troppo per il sottile e per due lire si comprano un ettaro di terra contaminata.
Sarebbe tutto da bonificare ma quelli di Expo non hanno soldi. Già hanno problemi con le infiltrazioni di trielina nelle aree di sedime dell’evento, figuriamoci appena fuori che cosa c’è, in quell’ambito industriale mai risanato che con un tratto di penna si rende area residenziale. I rom, puoi scommetterci, sono più preoccupati di vedersi sgomberare che delle condizioni del terreno su cui dormono. Ma le ruspe non avranno gioco facile. Al limite gru e caterpillar potranno abbattere le costruzioni che risulteranno abusive. Loro hanno un contratto in mano e sono pronti a farlo valere in sede legale. “Che la comprino ai prezzi che hanno fatto ai ricchi proprietari del campo di fronte”, dice uno di loro con tono ironico.
Non ci sono altre forme di vita parlanti lungo il perimetro del triangolo d’oro dell’expo, oltre all’imprenditrice milionaria e ai rom dirimpettai che elemosinano un lavoro in edilizia o stanno ai semafori. Di qui è passato durante la sua campagna elettorale l’attuale presidente della Provincia Guido Podestà. “Si è rifugiato da me dopo che la sua auto blu è stata presa a sassate dai bimbi rom”, racconta lo sfasciacarrozze che sta proprio al centro del villaggio abusivo e dicono stia più a San Vittore che al lavoro. “Scende e mi dice che era venuto a fare un sopralluogo. Io gli spiego come stanno le cose e lui giura che se sarà eletto entro tre mesi procederà a sgombero e bonifica”. Podestà siederà sulla poltrona di presidente mentre dopo due anni villette abusive e inquinanti sono ancora lì ad aspettarlo.
I lobbisti delle bonifiche
In questo silenzio fa più rumore l’iniziativa di 14 grandi aziende del ramo bonifiche che pochi giorni fa hanno indetto una conferenza stampa in Provincia per presentare alcune proposte di intervento sul tema del recupero ambientale. Le aziende della filiera si presentano come associazione senza fini di lucro. Il nome di “Bonifichexpo” richiama l’evento del 2015 ma fin da subito l’associazione chiarisce che non guarda a quella piccola area ma ragiona su scala quanto meno provinciale, dove ci sono 10 milioni di mq da bonificare con un business che vale 11 miliardi. Il ragionamento è semplice: il pubblico dovrebbe provvedere ai costi di bonifica ma non fa partire neppure progetti e gare per mancanza di soldi. Così i terreni restano contaminati o dismessi e i signori delle bonifiche si devono accontentare delle briciole anziché del piatto forte.
Tutto fila finché non si nota quanto poco spessa sia la vernice da benefattori data all’associazione: curiosamente ha sede nella stessa società di ingegnerizzazione che ha fatto la Valutazione ambientale strategica (Vas) e il vicepresidente di Bonifichexpo ne è addirittura presidente. Il discorso bonifiche è di per sé scottante, ma diventa insidioso se a promuoverlo è un pezzo da novanta della politica locale come Gianpiero Borghini, oggi nei panni del presidente di Bonifichexpo e solo ieri direttore generale del Comune di Milano (e prima ancora sindaco e consigliere regionale).
Che non si tratti di non profit lo certifica anche il fatto che l’associazione abbia commissionato all‘università Bocconi uno studio di sostenibilità economica delle bonifiche in provincia di Milano che è costato circa 200mila euro. Non c’è una mappa inedita delle aree, un censimento o altro d’utile allo scopo ma una raffinata disamina dei modelli di sostenibilità finanziaria. E che dice la Bocconi? Che prima di tutto si tratta di affari ad alto rischio. Chi ci entra deve avere alti capitali e prevedere ritorni incerti e lontani nel tempo. Si parla di venture capital, project financing, ma la strada del pubblico rispunta fuori. Perché parlare di queste cose in Provincia? Perché è azionista della società di gestione Expo2015 ma soprattutto perché il suo presidente Podestà ha una poltrona strategica nella Cassa Depositi e Prestiti.
Mica dietrologia, Borghini parla chiaro: “Sarebbe utile un interessamento per verificare la possibilità per parte pubblica di accedere a mutui a lungo termine così da poter aprire i cantieri, con la ritrovata edificabilità dei terreni recuperati l’operazione potrebbe prefigurare un rientro positivo”. Insomma, il pubblico dovrebbe indebitarsi fino al collo per spianare la strada alle ruspe dei signori della bonifica. Per fare cosa? La Bocconi prospetta tre soluzioni di riuso: creare residenze per anziani, residenze per universitari, alberghi low cost. Insomma, niente di più speculativo sotto il sole. E tutto, ancora una volta, all’ombra di Expo.