Quando si prova a stringergli la mano, non senti la stretta. Lui se la lascia stringere senza convinzione. Quando provi a chiedergli: “Signor Romeo, che cosa ricorda di quella mattina?”, ti risponde brusco: “Non mi interessa parlare coi giornalisti”. Ci pensa sua moglie a giustificarlo: “Quel giorno alla stazione era fermo col suo taxi in attesa dei viaggiatori. La bomba gli uccise il collega e amico, Fausto Venturi, proprio mentre stavano parlando insieme. Ora lui di quel giorno non parla più”.
Dopo 31 anni sono ancora in tanti a scendere per strada a salutare le celebrazioni per il ricordo della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980. In città, del resto, c’è chi da anni aspetta questa mattina prima di andare in vacanza. Quando il corteo parte da piazza del Nettuno, proprio davanti al monumento che ricorda i caduti della Resistenza, dai bordi di via Indipendenza partono i primi applausi rivolti ai parenti delle vittime e ai sopravvissuti, che con un fiore bianco appuntato al petto sono tutti stretti come se volessero abbracciarsi nel cammino verso la stazione.
In mezzo alla folla non ci sono solo parenti, ma anche tanti sopravvissuti, o forse sarebbe meglio dire feriti. Mirella viene da Modena e quel sabato del 1980 andava in vacanza con sua figlia. La bomba la scaraventò lontano ed evitò che venisse schiacciata sotto la sala d’attesa: “Lo spavento maggiore fu quello di non riuscire a trovare mia figlia. Per molti minuti pensai che fosse morta”. Poi la trovò, sana e salva.
Francesco Durante i segni di quella strage li porta ancora addosso. Che beffa per lui, che allora era artificiere nell’esercito, finire quasi ucciso da una bomba scoppiatagli sotto il naso. “Sono sceso dal treno alle 10 e mi sono infilato in sala d’attesa, a 10 metri dalla bomba, di fronte a lei. Sai, la bomba ammazza chi sta ai lati”.
Il ricordo di Francesco è preciso, come quello di un militare che deve fare un rapporto. Suo nipote, sceso con lui da Pavia per questo anniversario, riascolta il racconto sentito chissà quante volte. “I sedili della sala d’attesa si rovesciarono e io rimasi intrappolato con la schiena a terra. Così sentii scorrere sulla mia schiena come un liquido caldo, il sangue dei morti e dei feriti e le urla. Gridavano aiuto!, chiedevano perché?. Pensavo di morire, ma poi ebbi la forza di farmi vedere dai primi soccorsi”.
Erano tanti i militari quel giorno in quella sala d’attesa piena zeppa di viaggiatori. Chi andava in licenza, chi andava a sostituire un superiore in un’altra caserma. Vincenzo d’Orta veniva da Napoli. Era sceso a Bologna anche lui per un banale cambio di treno: “Ricordo solo che quando mi misi in piedi dopo lo scoppio sentì un calore fortissimo. Ero ustionato dal bacino in su. L’altra cosa che ricordo è un furgoncino, un Ford Transit rosso che mi portò in ospedale e mi salvò”. La macchina dei soccorsi messa in moto dalla città valse a Bologna la medaglia d’oro all’onor civile.
Tanta la gente del sud oggi nella città emiliana. Francesca Lauro del 2 agosto 1980 è un’orfana. Oggi, a 40 anni, ha portato per la prima volta suo figlio a Bologna: “Avevo 9 anni e i miei genitori li ho visti partire e non li ho visti più tornare. Il giorno dopo le mie sorelle maggiori corsero a Bologna a cercarli, ma non li trovarono”. Si chiamavano Velia e Salvatore Lauro.
Appena arrivati nella piazza antistante la stazione si inizia a capire che anche quest’anno i bolognesi sono accorsi a migliaia. In mezzo alla piazza, in un’aiuola, un gruppo di ragazzini di Bologna e Marzabotto è pronto per recitare una poesia e far volare dei palloncini bianchi in aria proprio allo scoccare delle ore 10:25.
Tra i ragazzi c’è anche Giorgio Diritti, il regista del film pluri-premiato sull’eccidio nazista di Marzabotto, L’uomo che verrà. “Mi piacerebbe raccontare il 2 agosto in un film o in un documentario. Tante volte ci ho pensato”, spiega il regista, che quella mattina del 1980 era a Bologna, a poche centinaia di metri dalla stazione. “Ma forse, per poter raccontare una storia come questa c’è bisogno che sia chiaro il perché di questa strage, conoscere chi è stato”.
Già, chi è stato. Il non sapere ancora chi furono i veri mandanti di quell’attentato che uccise 85 persone e ne ferì 200, è una ferita aperta per il Paese. E proprio in questa prospettiva brucia l’assenza alla manifestazione, per il secondo anno consecutivo, di un membro del Governo. “Dovevano venire, dispiace che non l’abbiano fatto”, dice Antonio, un sopravvissuto di Benevento. Lui, simpatizzante per la maggioranza alla guida del Paese, è molto deluso dal comportamento dell’esecutivo. Anche Mirella è delusa, “non solo dai governi di centrodestra, ma anche da quelli di centrosinistra che hanno fatto poco sia per i sopravvissuti sia per chi chiede la verità”. Ma poi ci pensa un po’ e dice: “In fondo però, se ogni volta deve finire coi fischi, forse è meglio che non siano venuti”.
Il termometro segnala 33 gradi. Il sole batte sulle teste e forse scioglie anche qualche lacrima. Una signora di Bologna piange a dirotto mentre dal palco ricordano quei momenti: “Io ero in vacanza, in Sicilia. Seppi dell’accaduto a sera e provai a chiamare a Bologna per avere notizie. Ma i telefoni erano intasati. Furono ore di terrore”. “Signora, lei come si chiama?”, chiediamo. “Scriva così: una cittadina fiera di essere bolognese”.