Non c’è pace per le Borse e i mercati obbligazionari sotto il tiro della speculazione che mira a destabilizzare gli stati sovrani dopo averli costretti a sborsare migliaia di miliardi di dollari per salvare un sistema finanziario frankensteinamente malato.
Oggi Tremonti volerà a Bruxelles per una riunione straordinaria con il presidente dell’Eurogruppo Juncker ma sembra ormai chiaro che nei mercati nessuno tiene più in considerazione un ministro dell’Economia super indebolito dalle inchieste giudiziarie e soprattutto dall’impallinamento giornaliero dall’interno della maggioranza di centro destra. Giuliano Ferrara ne ha chiesto le dimissioni sulle colonne del Corriere della Sera mentre Silvio Berlusconi preparava l’intervento alle Camere deciso all’oscuro dello stesso Tremonti. Intervento che è stato posticipato alle 17.30, a borse chiuse, per non interferire nell’immediato con l’andamento del mercato. Una situazione paradossale che non può che facilitare l’attacco speculativo, reso ancora più efficace dall’assenza totale di regole contro le vendite allo scoperto “nude”.
L’accordo tra repubblicani e democratici avrebbe dovuto riportare la calma e invece, è stato soronamente bocciato dalle Borse, a cominciare da quella americana che ha visto il Dow Jones, l’indice del mercato principale, chiudere in flessione del 2,18% e l’indice tecnologico Nasdaq a -2,75%.
Tutta la giornata è stata comunque contrassegnata da segni meno con un saldo che in Europa ha comportato una perdita complessiva di capitalizzazione pari a 100 miliardi di euro. Ancora una volta la maglia nera è spettata a Piazza Affari che ha perso il riportandosi ai livelli di tre anni fa. Se le Borse, come si è sempre detto tra gli addetti ai lavori, anticipano i fenomeni possiamo dire che gli operatori stanno registrando gli spauracchi di una nuova caduta dei cicli economici nei paesi ricchi, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa.
Difficile, però, capire che cosa accade realmente se non che il sistema finanziario sta reagendo in modo concertato contro tutti colori che tentano di porre delle regole e di riportare il governo dell’economia nelle mani di decisori pubblici preoccupati dell’interesse collettivo (e quindi, per esempio, di combattere gli effetti devastanti della disoccupazione) più che dei risultati di bilancio delle imprese quotate. Lo stesso dicasi per i debiti sovrani. Lo spread tra Btp decennali dell’Italia e Bund tedeschi ha raggiunto ieri il livello record di quota 385 punti base facendo impennare i rendimenti (si sono toccati il 6,26%, come ai tempi della lira). Se il divario di rendimento tra Btp e Bund a dieci anni ha toccato un nuovo massimo dall’introduzione dell’euro (con un picco nei primi scambi del mattino di 388), tende, invece, ad assottigliarsi la distanza di Roma da Madrid, che certifica il peggioramento dell’Italia nella classifica di rischio. Lo spread tra titoli di stato spagnoli a dieci anni e quelli italiani si è stretto fino a 24 punti base, contro un livello di equilibrio che a giugno si aggirava sugli 80 punti base.
E a conferma di questo trend, il rendimento del titoli a 5 anni italiani ha toccato la parità con gli analoghi titoli spagnoli per la prima volta da marzo 2010. Sono schizzati verso l’alto i credit swaps italiani, i contratti derivati che assicurano contro il rischio default a 5 anni, che, secondo Markit, salgono a 368 punti base, con un rialzo di seduta di 37 punti base. L’avversione al rischio è la tendenza dominante e ha incrementato a tal punto la richiesta di titoli tedeschi a dieci anni, considerati asset rifugio inattaccabili, da annullarne, per la prima volta oltre 50 anni, il premio di rendimento nei confronti dell’inflazione. Il Bund decennale tedesco, infatti, è arrivato a rendere il 2,395%, il minimo da oltre 9 mesi, contro un tasso d’inflazione annuale tedesco che a luglio si è attestato al 2,4%.
Tra le piazze borsistiche europee male Atene (-3,25%), Stoccolma (-2,54%) e Madrid (-2,18%), appesantite come di consueto dai titoli bancari. Settore del credito che, secondo diversi operatori concentrati sui mercati europei, merita un discorso a parte: sono andate particolarmente male le banche della zona euro (-3,32% l’indice Dj stoxx specializzato) e anche quelle svizzere, mentre hanno sostanzialmente tenuto quelle inglesi, un fattore che confermerebbe la spinta dagli ‘hedge fund’ con base a Londra nella speculazione contro i Paesi considerati più deboli della zona euro.
«Se la moneta unica saltasse – afferma qualche operatore – ci guadagnerebbero solo le banche con base a Londra, che si rafforzerebbe come centro non solo azionario». Solo un’ipotesi, con la seduta borsistica di ieri che si è comunque conclusa così: Ubs e Credit Suisse rispettivamente -7,7% e -7,4%, Unicredit e Intesa in calo del 5,7% e del 5,2%, Commerzbank del 4,7%. In contrasto Hsbc è cresciuta dello 0,43%, Standard Chartered dello 0,19%, Barclays ha concluso con una limatura dello 0,12% in un mercato come quello londinese, che ieri ha perso “solo” lo 0,74%.
Martedì anche Paolo Panerai, direttore ed editore di Milano Finanza, tuonava dalle colonne di Mf per segnalare come in questo momento la Germania sia l’unico paese europeo ad essersi dotato di una specifica legge che vieta le operazioni di vendita allo scoperto senza il possesso dei titoli stessi. La verità è che in una crisi complessiva dell’economia occidentale, incapace di correggere la rotta dopo gli eccessi della bolla immobiliare e del debito, appena la politica, qui e Oltreoceano, alza la testa contro la finanza monstre il sistema non esita a colpirla in modo pesantissimo e con la complicità involontaria di decine di migliaia di risparmiatori che sotto l’onda del panic selling, cioè delle vendite da panico, seguono l’onda degli speculatori professionali danneggiando se stessi scommettendo contro gli stati sovrani, facendo salire le quotazioni delle materie prime alimentari, rastrellando terre nei paesi più poveri dove coltivare biocarburanti incuranti degli effetti devastanti di carestie e cambiamenti climatici.
Agosto da sempre uno dei mesi neri per la finanza e economia mondiale: epicentro di tante future scosse sismiche è stato il discorso di 18 minuti col quale Richard Nixon, il 15 agosto del ’71, annunciava la sospensione della convertibilità del dollaro con l’oro. Era la fine del sistema delle parità fisse deciso a Bretton Woods, ma anche l’inizio della resa al crescente disordine sul mercato dei cambi. E se il marco cominciò un’irresistibile rivalutazione sul dollaro, la lira andò presto alla deriva. Già nel ’74, resa malconcia dalla crisi petrolifera, l’Italia rischiò la bancarotta al punto di impegnare le riserve aurifere pur di strappare un prestito da Bonn. Era l’accordo di Bellagio siglato il 31 agosto. Nel ’79 l’Europa introdusse lo Sme ma per la lira fu sempre precarietà che diventò psicodramma nel ’92. Nell’agosto di quell’anno, la salvezza dell’Italia pareva aggrappata a soglia 760 sul marco. Per difendere quelle posizioni, la Banca d’Italia bruciò quasi 30mila miliardi. Il ministro del Tesoro Piero Barucci se la prese con Moody’s che aveva declassato in serie C il Paese, ma la lira era davvero un gruviera e venne la grande svalutazione: la lira uscì, con la sterlina, dallo Sme. Attorno al Ferragosto del 1998 la crisi russa seguiva quella asiatica e sudamericana producendo una delle famigerate crisi finanziarie che nel corso degli ultimi vent’anni si sono intensificate a dismisura.
di Andrea Di Stefano – Direttore di Valori