Più di cento immigrati smistati da Lampedusa in attesa dell'asilo politico albergano a Montecampione, a 1800 metri d'altitudine, senza un documento in tasca senza alcuna possibilità di muoversi
Kalid ha 37 anni e la sua casa sta in Siria. Ha lavorato sei anni in Libia e poi s’è trovato allo sbando, nel bel mezzo della rivolta contro Gheddafi. Nemmeno l’alternativa di tornare nel suo paese era praticabile. Dalla dittatura di Bashar al-Assad era già fuggito tempo prima; per cui dopo una breve trattativa con gli scafisti lungo le coste libiche, è approdato a Lampedusa, convinto che per lui sarebbe iniziata una nuova alba italiana. Invece abita, assieme ad altri 110 richiedenti asilo politico, il nulla delle Alpi Orobiche.
Sudan, Guinea, Mali, Togo, Senegal, Nigeria, Ghana, Gambia, Costa d’Avorio, Guinea, Ciad, Niger, Camerun e naturalmente Siria, le nazioni di provenienza. Età comprese tra i 16 e i 45 anni. Su, a quota milleottocento metri, c’è una bellezza naturalistica che pesa come un macigno, sui profughi che fanno avanti e indietro in una struttura alberghiera pensata per l’inverno e che d’estate dovrebbe rimanere un vuoto casermone abbandonato al silenzio. Ma così in Lombardia si è gestita l’emergenza di chi è dovuto fuggire dall’inferno libico.
A Montecampione, nel cuore della Valcamonica bresciana, erano 99 fino al 3 agosto, e si pensava che il loro numero non sarebbe cresciuto ulteriormente. Invece ne sono arrivati altri 12 e si è in attesa di una nuova ondata il prossimo 20 agosto, quando saranno portati quassù 60 disperati. Del resto il residence che occupano potrebbe accoglierne tranquillamente trecento.
Una possibilità che scongiurano alla cooperativa K-Pax Onlus di Cividate Camuno, comune valligiano non distante, da dove arrivano alcuni degli operatori dello Sprar – Servizio protezione richiedenti asilo-rifugiati – con sede a Breno, coordinati dall’Anci e dal Ministero dell’interno: i veri esperti della materia.
Spiegano che i profughi vengono dirottati in ogni regione in proporzione ai suoi abitanti. “Ma ciò che hanno fatto in più altrove, come in Emilia-Romagna”, dicono gli operatori Sprar, “è stato coinvolgere con forza i comuni delle singole province spiegando, per esempio, il meccanismo di copertura economica dell’operazione: 46 euro pro capite con la collaborazione del volontariato e dei servizi specialistici di zona. In Lombardia, invece, questo dialogo è mancato, ecco perché di profughi nessuno vuole sentir parlare e si stanno commettendo errori madornali”.
La gestione montana dell’emergenza è un unicum tutto bresciano. Oltre a Montecampione ci sono altri 60 richiedenti asilo a Conteno Golgi, in alta Valcamonica, altri presso la Caritas di Darfo e 14 in Val Palot, nel comune di Pisogne. Quest’ultima è l’altra situazione che più preoccupa gli operatori dello Sprar. Qui in una “casa vacanze” nel cuore di una valle davvero incantevole, ma priva del ben che minimo stimolo per chi non sia un villeggiante o un cercatore di funghi, sono ospitati giovani in arrivo dal Mali e dal Senegal. Uno di loro, di recente, è stato allontanato e mandato in una struttura di Milano, “perché incompatibile con gli altri” dice il proprietario della casa, Antonino Colosimo, imprenditore milanese.
“Abbiamo a che fare con delle bombe ad orologeria”, spiega Carlo Cominelli, psicologo, operatore Sprar e presidente della cooperativa K-Pax. “Questi ragazzi sono esasperati dall’isolamento in cui vengono costretti qua in montagna”. Per fortuna, ogni tanto, arrivano buone notizie. Ai ragazzi della Val Paolt è stato di recente consegnato l’agognato permesso di soggiorno temporaneo ed è stata comunicata la data in cui una commissione esaminatrice valuterà la loro richiesta di asilo politico: il gennaio del 2012.
Il problema è che senza nemmeno un biglietto per un mezzo pubblico, per loro e dura muoversi verso il paese più vicino (Pisogne, a una trentina di chilometri di distanza) e approfittare dell’essere stati riconosciuti – almeno temporaneamente e con alcune limitazioni– cittadini della Repubblica italiana.
Stanno comunque meglio di chi abita il residence Montecampione, privo di qualsiasi tipo di documento e quindi impossibilitato, anche giuridicamente, a muoversi. Charles, quarantenne ghanese, artigiano a Bengasi in una ditta libica per sei anni, vorrebbe andarsene da lì per cominciare magari a fare qualcosa e mandare un po’ di soldi a casa. La sua è un’aspettativa che hanno in molti, forse tutti, perché ognuno ha una moglie, un figlio o un caro che è rimasto nell’inferno africano e che aspetta almeno delle notizie. “Ma il ritardo col quale queste persone sono riuscite a fare la prima telefonata ci lascia allibiti”, riprende Cominelli, “anche se parliamo di un diritto inalienabile persino per un carcerato”.
C’è poi da affrontare il tema sanitario. I profughi di Montecampione pesano tutti sull’Asl Valcamonica-Sebino. Questa manda un medico un paio di volte a settimana e mette a disposizione una postazione di soccorso avanzato più sotto, a quota 1200, che però serve anche i turisti e i valligiani residenti.
Quel che ora preoccupa maggiormente è la mancanza di informazione per i profughi. “Queste persone”, dice ancora il presidente di K-Pax, “affronteranno nei prossimi mesi la loro partita più importante: incontrare la commissione che dovrà formalizzare il loro status di rifugiati. Dovranno riferire delle terribili situazioni che li hanno costretti a fuggire dal loro paese, cercando di essere il più convincenti possibile. Ma come potranno, se molti di loro sono analfabeti, parlano solo lingue africane e vengono lasciati a loro stessi, relegandoli in alta montagna o in mezzo a un bosco?”