Sotto ricatto non si tratta. Perché, se si tratta, il ricatto “paga”. E, se paga, diventa norma. Questo si diceva un tempo. Ed ancora si dice, ovunque l’industria dei sequestri, o il terrorismo, vadano cercando, con il ricatto, d’imporre la propria legge. Questo è, anche, quello che Bill Clinton – un presidente che, pure, è passato alla storia, non come un esempio di robespierriana incorruttibilità, bensì come gran maestro nell’antica e molto poco eroica arte della “triangolazione” – aveva con molta forza raccomandato prima ancora che la storia avesse inizio: dire no, rifiutare ogni trattativa sotto la minaccia d’un apocalittico default e ricorrere a quel 14esimo emendamento della Costituzione che sancisce, per così dire, la sacralità degli impegni finanziari del governo federale.

E questo è, infine, quello che Barack Obama ha, al contrario, colpevolmente dimenticato, firmando martedì 2 agosto un compromesso che tale si può definire solo nel senso che ha davvero compromesso, probabilmente senza possibilità di redenzione, la credibilità politica della sua presidenza e quella dell’intero sistema politico americano. Barack Obama ha trattato, il Tea Party ha vinto, il ricatto ha pagato. E le borse di tutto il mondo – quelle che dal “compromesso” teso ad evitare il default americano dovevano, in teoria, essere rassicurate – hanno cominciato a precipitare a vertiginosa velocità. Perché?

Per molte ragioni, ovviamente, solo in parte da ricercare sulle sponde occidentali dell’Atlantico. Ma non v’è dubbio che, tra le cause più profonde e durature del crollo, vadano annoverati gli inequivocabili messaggi che, nel sempre più tortuoso dipanarsi della crisi del debt ceiling, l’America ha trasmesso al mondo.

Il primo e più importante messaggio è che gli Stati Uniti d’America non sono oggi in grado di fare nulla per rimettere in moto i motori della propria crescita. Sotto il ricatto d’una minoranza di fanatici, che ha minacciato d’affondare la nave non dovesse la plancia di comando seguire la rotta a lei gradita – l’America ha sprecato settimane preziose per tentare di risolvere attraverso il negoziato una crisi totalmente inventata. O meglio: per disinnescare un passaggio per quasi un secolo rimasto materia di pura ed ovvia routine – l’aumento del tetto del debito al fine di onorare gli impegni di spesa già assunti dallo Stato – trasformato in arma di distruzione di massa dai talebani repubblicani. Come in un film hollywoodiano, l’accordo ha infine interrotto il count down quando non mancavano che pochi secondi all’esplosione. E Barack Obama ha salutato il compromesso come un passo verso il “ritorno alla ragione”. Vale a dire: verso la possibilità di tornare ad affrontare quello che è da lui – e da ogni persona razionale – considerato il più urgente problema. Il rilancio dell’occupazione. E questa potrebbe, in un mondo razionale, essere davvero la fine (l’happy ending) della storia.

E invece, nell’irrazionale America d’oggi, questo non è, della storia, che l’orribile inizio. Obama, nel firmare l’obbrobrio chiamato “Budget Control Act”, ha infatti annunciato nuove iniziative tese a creare posti di lavoro. Peccato che, per creare nuovi posti di lavoro, il suo governo debba necessariamente spendere. E spendere è esattamente ciò che il ricatto del Tea Party – un ricatto che ha pagato e che, per questo, riproporrà se stesso – gli impedisce e gli impedirà di fare.

Il secondo messaggio lanciato in queste surreali ore di “non negoziabili negoziati” riguarda l’altro fronte della crisi: quello, per l’appunto del debito pubblico. Quasi certamente destinato ad indebolire ulteriormente un’economia già debolissima, il “Budget Control Act” rende di fatto ancor più intrattabile, in prospettiva, anche il problema dell’esponenziale crescita del deficit, considerato la vera fonte del declino della superpotenza Usa.

Sicuramente discutibile – e discutibile soprattutto per il fatto che era, comunque, la risposta ad un ricatto – il “Grand Bargain” (il Grande accordo, 4mila miliardi di risparmi nei prossimi 10 anni) proposto da Obama durante le più convulse fasi delle trattative, tentava, quantomeno, d’avviare un processo in questa direzione. E proprio per questo è stato cassato, lasciando spazio, all’ultima ora, ad un più contorto e modesto accordo che non fa, in realtà, che rinviare i veri problemi. O, se si preferisce, che non fa che sostituire l’Apocalisse finanziaria invocata dagli invasati sacerdoti del Tea Party con una più diluita – ed inevitabilmente più penosa e sofferta – forma di suicidio collettivo. La verità è che il ricatto della destra americana – tesa a difendere con religioso fervore anche i più imbarazzanti privilegi dei “grandi ricchi” – priva gli Stati Uniti d’una delle indispensabili leve di qualsivoglia strategia anti-deficit: quella d’un incremento delle risorse fiscali.

Nello specchio della molto fasulla crisi del debito, il mondo ha visto, in sostanza, un’America nelle sabbie mobili della propria politica. Un’America che affonda. Il ricatto ha vinto. Il declino è cominciato…

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