Doveva vendere 250mila copie, come Goo dei Sonic Youth. Fu comprato più di cento volte tanto, arrivando a 30 milioni circa. Nevermind, opera miliare del grunge e apice artistico dei Nirvana, usciva venti anni fa. Il 24 settembre 1991, per l’esattezza. Dal suicidio di Kurt Cobain ne sono passati diciassette, eppure la sua aura maledetta mette ancora imbarazzo ai cittadini di Aberdeen, il paese – nello stato di Washington – in cui il cantante nacque il 20 settembre 1967. Tre mesi fa gli hanno dedicato una statua: non raffigura lui, ma la Fender Jag-Stang che suonava all’altezza delle ginocchia. Nei giorni scorsi, l’amministrazione ha vietato che il ponte cittadino – citato in Something In The Way e sotto il quale Cobain diceva di aver vissuto – fosse a lui intitolato, perché “rinominarlo alla sua memoria sarebbe stato come glorificare l’utilizzo di droghe nonché il suicidio, di cui Cobain è irrimediabilmente icona”. Torna alla mente Preghiera in gennaio, il brano che Fabrizio De André dedicò all’amico (teoricamente) suicida Luigi Tenco: “Signori benpensanti spero non vi dispiaccia/ se in cielo, in mezzo ai Santi/ Dio, fra le sue braccia/ soffocherà il singhiozzo/ di quelle labbra smorte/ che all’odio e all’ignoranza/ preferirono la morte”. Già che c’erano, gli zelanti censori di Facebook hanno oscurato la copertina di Nevermind. Quella in cui un bambino di 4 mesi, Spencer Elden, nuota nudo in una piscina di Pasadena. Inseguendo una banconota. Forse era troppo osè. Forse potevano usare la versione aggiornata del 2008, in cui un ormai 17enne Elden nuota nella stessa piscina. Stavolta in bermuda. Stavolta senza poesia.
Nevermind compie 20 anni e suona ancora benissimo. Smells Like Teen Spirit, Come as you are, On A Plain, Lithium. Quel novembre i Nirvana gravitarono in Italia. Teatro Verdi di Muggia (Trieste), Bloom di Mezzago, Cinema Castello di Roma, Kryptonite di Baricella (Bologna). Luoghi marginali. I plasticati Ottanta erano appena finiti e sembrava che troppo oltre non si potesse andare. Invece arrivò il grunge. Il Seattle Sound, perché lì nacque e proliferò. Mescola esplosiva di heavy metal, punk e hardcore. Reazione urlata e urgente, senza mediazioni. Alice In Chains, Screaming Trees, Mudhoney, Pearl Jam: figli e figliastri dei Pixies.
Nel mezzo, anzi sopra, i Nirvana. Kurt Cobain, il bassista Krist Novoselic e (ultimo arrivato) il batterista Dave Grohl. Si erano chiamati The Stiff Woodies, Sellouts, Brown Cow. Il nome “Nirvana” divenne definitivo dal 1987. Il primo album – dei tre complessivi – uscì nel 1989. Bleach si rifaceva ai Melvins e doveva il nome (“candeggina”) a una pubblicità sull’Aids che consigliava ai tossicodipendenti di pulire in quel modo gli aghi. L’etichetta era l’indipendente Sub Pop. Nevermind segnò il passaggio alla Geffen. Una major. Svolta storica: per la prima volta un colosso discografico puntava sulla musica alternativa. Monetizzava la protesta. Qualcosa di molto superiore alla firma (tre anni prima) dei R.E.M. per la Warner. Cobain reputava il suono di Nevermind troppo morbido. Ossature pop straziate da esplosioni punk: una mezza novità (c’erano già arrivati gli Husker Du) che fece breccia. Campagna promozionale imponente, il video di Smells Like Teen Spirit (parodiato da Weird Al Jankovic) che entra nell’immaginario collettivo. A inizio 1992 Nevermind scalzò Dangerous di Michael Jackson al primo posto delle classifiche. Li amavano pubblico, critica, major e alternativi: come riassunse Billboard, “I Nirvana avevano tutto”.
Quel trionfo planetario portava con sé, inesorabile contrappasso, l’evaporazione autodistruttiva del leader. Figura problematica. Curato da bambino col Ritalin perché “iperattivo”. Figlio di separati. Disturbi bipolari, bronchite cronica, ulcera, flebite (un pezzo di cotone rimasto sull’ago di una siringa), vertebra spostata che premeva su un nervo. Dipendenza da oppiacei, eroinomane. Imbottito di Valium e Roipnol. Marito, dal 24 febbraio 1992, della non meno tossicodipendente Courtney Love, cantante delle Hole. Cobain non era pronto e fu spazzato via: 27enne, come da stereotipo.
L’ultimo disco nel 1993, In Utero, con la straziante All Apologies. Un concerto unplugged per Mtv, testamentario come quello di Layne Staley, voce degli Alice In Chains. Una figlia, che chiamò Frances Bean – oggi 19enne – per tributo all’attrice Farmer (“Frances”) e perché nell’ecografia il feto gli ricordò un fagiolo (“Bean”). Kurt era solo e la moglie non migliorava le cose: volgare, violenta, ambigua (in Last Days, il regista Gus Van Sant ipotizzerà un complotto di sedicenti “amici”). Dopo un’overdose nel luglio del ’93, la Love non chiamò l’ambulanza ma imbottì il marito di Narcan, un antagonista oppioide reperito illegalmente: intendeva ridestarlo a forza prima di un concerto. Ai primi di marzo del ’94, a Roma, Cobain passa una notte in coma farmacologico assediato dai giornalisti. Accetta di curarsi in una clinica di Los Angeles. Scappa il primo aprile, scavalcando un muro di due metri. Torna a Seattle. La Hole paga un detective per trovarlo. Non era difficile: bastava cercarlo nella sua casa sul Lago Washington. Si spara un colpo in testa, verosimilmente il 5 aprile, con un fucile a canne mozze. Come Hemingway. Lo trova un elettricista tre giorni dopo. Accanto al corpo c’è una (discussa) lettera d’addio che cita Freddie Mercury e Hey Hey, My My (Out of the Blue) di Neil Young: “Meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente”. Scrive: “Non provo più emozioni nell’ascoltare musica e nemmeno nel crearla (..) Devo essere uno di quei narcisisti che apprezzano le cose solo quando non ci sono più. (..) Ho bisogno di essere un po’ stordito per ritrovare l’entusiasmo che avevo da bambino (..) Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente”.
Fu cremato. Un terzo delle ceneri nel tempio buddhista di Ithaca a New York. Un terzo nel fiume Wishkah, che scorre sotto il ponte a cui non vogliono dare il suo nome. L’altro terzo alla vedova. La signora Love teneva le polveri in una borsa rosa a forma di orsetto. Tre anni fa gliel’hanno rubata.
Il Fatto Quotidiano, 5 agosto 2011