Difatti in questi giorni, ormai alla disperazione, i produttori di frutta e verdura sono andati in piazza: a regalare quintali e quintali di pomodori, peperoni, melanzane, pesche e angurie. Il messaggio della singolare protesta è “meglio regalare che svendere”.
È un’estate tragica per il settore ortofrutticolo: per quanto aumentino i costi agricoli (a giugno + 5% secondo l’ISMEA), la Coldiretti dichiara che “i prezzi pagati agli agricoltori per la frutta estiva sono crollati mediamente del 29%, ma sugli scaffali per i consumatori continuano incredibilmente a salire con un aumento medio dell’1,6%”.
Chi ci guadagna è la grande distribuzione, come si può vedere da questa tabella (clicca qui).
È da tempo che frutta e verdura sono sottopagate dalla grande distribuzione, rendendo insostenibile la vita degli agricoltori e delle loro famiglie. Oltre a rendere onerosa quella di chi acquista al supermercato.
Quest’anno però si è arrivati al tracollo: come era già parso evidente con la protesta dei produttori di pesche a Bologna: “ci stiamo mangiando perfino la nostra azienda: per pagarci un litro di benzina dobbiamo vendere 8 chili di pesche”. Se il prezzo all’origine delle pesche è 34 centesimi al chilo (la metà di 10 anni fa), e quello di produzione è di 45 centesimi, l’agricoltore subisce una perdita di 11 cent/kg. D’altronde il prezzo che viene fatto all’ingrosso è 71 cent/kg mentre il prezzo alla vendita è 1,90 euro/kg della GDO (1,92 al mercato e 2,29 nel negozio specializzato). Il 29 di luglio, in un negozio di Reggio Emilia, il chilo di nettarine che era stato pagato al produttore 34 centesimi è arrivato in vendita a 4 euro al kg.
E così, negli ultimi 15 anni, si sono quasi dimezzate le coltivazioni di pesche in Italia.
Lo stesso sta avvenendo per la produzione di albicocche e susine, cetrioli e melanzane, nettarine e angurie. Si prenda il caso delle angurie: fra giugno e luglio, dichiara la Confederazione Italiana Agricoltori (CIA), le vendite sono calate di oltre il 25%, con punte del 70% nel Mezzogiorno (specie in Puglia e in Calabria). Gli agricoltori devono vendere 10 chili di cocomeri per poter acquistare una tazzina di caffè al bar.
Ciò è avvenuto come è stato sottolineato dalle centrali cooperative Agci, Confcooperative e Legacoop: “a causa della sovrapposizione dei calendari di maturazione fra Nord e Sud nelle aree italiane e anche di altre aree produttive dell’Europa, che hanno creato un’eccedenza dell’offerta, nonché della riduzione della domanda…in parte per il condizionamento psicologico indotto dallo scandalo Escherichia Coli… ed in parte per l’esistente crisi economica”.
A questo si è aggiunta, come è evidente nel caso delle nettarine e dei cocomeri, anche una scriteriata importazione da paesi del Mediterraneo che vendono a prezzi irrisori, in particolare dalla Grecia che è sull’orlo della bancarotta. “Di conseguenza” scrive la CIA “la scelta drammatica che si pone oggi agli agricoltori italiani è tra vendere il prodotto assolutamente sottocosto o lasciarlo marcire nei campi, per risparmiare almeno le spese di raccolta. Una scelta non semplice… Se si considera che l’investimento ad ettaro per la produzione di angurie è pari a 7 mila euro (tra la preparazione della terra, le piantine, i trattamenti fitosanitari, le irrigazioni continue, la manodopera) e che la resa produttiva, sempre per ettaro, è di 300 quintali, si capisce bene che con un guadagno di 10-15 centesimi al chilo non si coprono neppure la metà delle spese sostenute…. L’emergenza delle angurie invendute ha già causato danni per quasi 20 milioni di euro solo ai produttori agricoli e per circa 45 milioni se si considera tutto l’indotto. In più, il blocco del comparto mette a rischio anche la manodopera impiegata ogni anno per la raccolta dei cocomeri, che storicamente vede coinvolti migliaia di lavoratori extracomunitari”.
Quest’anno nel solo Salento circa 2 milioni di quintali di angurie non sono neppure stati raccolti e sono andati persi, oltre a 50 mila giornate di lavoro per le operazioni di raccolta con una perdita di non meno di 4,5 milioni di euro di salari non corrisposti a centinaia di braccianti agricoli per mancanza di prestazioni. Lo stesso sta accadendo per i meloni.
Coldiretti, Cia, Confagricoltura e Copagri hanno proposto un documento comune per sollecitare un’azione del Ministero delle Politiche Agricole: suggerendo interventi d’urgenza ma anche di ristrutturazione del settore.
Del resto alla base del disastro ci sono carenze strutturali di un paese senza una adeguata politica ministeriale, ma in balia d’una grande distribuzione che è però meramente nazionale, e nemmeno promuove il prodotto italiano all’estero (come ad esempio quella francese). Però impone prezzi che penalizzano sia il produttore che il consumatore, si serve di una filiera troppo lunga e costosa a scapito della trasparenza, e infine preferisce avere prodotti immaturi a prezzi stracciati.