L'incendio della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico il 21 aprile 2010

Il mercato del petrolio in Iraq? Lo controlla la BP. Come? Grazie a un contratto ventennale e accordi sottobanco con il governo locale che le assicurano condizioni a dir poco vantaggiose e a totale detrimento della nascente economia irachena. Lo denuncia Platform, Ong ambientale londinese specializzata nel commercio mondiale del greggio, con il rapporto “Fuel on the Fire – Oil and Politics in Occupied Iraq”.

Quello che doveva essere “il contratto più trasparente della storia del mercato petrolifero”, come disse il governo di Baghdad nel 2009, sarebbe in realtà un’accozzaglia di favori e regali alla multinazionale responsabile del disastro del Golfo del Messico. La versione finale del contratto per le estrazioni nella regione di Rumalia (dove vengono prodotti i 2/3 del petrolio iracheno), trovata e pubblicata da Platform, rivela infatti come la BP ha preteso condizioni di lavoro a dir poco dorate. Prima di tutto il contratto le garantisce di essere pagata anche per le estrazioni di petrolio che dovessero eccedere le quote permesse dall’Opec (indispensabile per l’equilibrio dei mercati). Inoltre il governo locale sarà costretto a pagare la BP anche in caso le infrastrutture per l’estrazione non raggiungano gli obiettivi prefissati dalla compagnia, circa 12 milioni di barili al giorno. Gonfiata poi a dismisura, da 50 a 100 milioni di dollari, la soglia di investimenti permessa dall’Iraqi South Oil Company, fondamentale per prevenire la corruzione in un Paese ad alto rischio sfruttamento.

Ma la clausola che fa più paura è quella che svincola la BP da ogni responsabilità penale “in caso di danno geologico causato da un’attività estrattiva troppo precipitosa o non efficiente”. Una postilla di una certa importanza per una compagnia sotto processo per uno dei disastri ambientali più imponenti degli ultimi decenni, lo sversamento nel Golfo del Messico di milioni di barili di petrolio a seguito dell’incendio della piattaforma Deepwater Horizon il 20 aprile 2010. E poi ancora in caso l’estrazione del greggio fosse interrotta per più di 90 giorni a causa di disastri naturali, guerra, attentati terroristici o scioperi, la BP avrà diritto a un cospicuo indennizzo economico.

Il fatto è che, secondo Platform, tutte queste clausole non c’erano nel contratto originale firmato nel giugno 2009, ma sono apparse nell’ottobre seguente. Tant’è che all’inizio esperti e analisti di settore si erano stupiti che la BP avesse accettato un contratto così poco vantaggioso (un guadagno sulla carta di 2 dollari al barile). “I cambiamenti che sono stati apportati a porte chiuse fanno vedere come in realtà sia la BP e non il governo iracheno a controllare la produzione di petrolio nel Paese”, ha detto Greg Muttitt, autore del report “Fuel on the Fire – Oil and Politics in Occupied Iraq”. “Tutto questo consente alla compagnia di tenere in pugno l’intera economia irachena”. E meno male che il ministro del petrolio iracheno aveva detto nel dicembre 2009 “Sono orgoglioso di me stesso e dell’accordo che abbiamo raggiunto, dove c’è più trasparenza che in ogni altro contratto mai stipulato in un Paese Opec”.

Kevin Smith, attivista della Ong Platform, sottolinea come “la trasparenza e il controllo all’atto della stipula di un contratto così importante siano fondamentali per prevenire l’eccessivo sfruttamento del suolo e di un intero Paese. Qualsiasi pressione la BP abbia fatto per ottenere questo accordo sottobanco, le clausole introdotte vanno a completo detrimento della popolazione irachena”.

Se il mancato rispetto della quote di estrazione Opec potrebbe portare ad uno scombussolamento dell’intero mercato del petrolio, con una conseguente caduta dei prezzi a svantaggio dei Paesi produttori, le assicurazioni di rimborso per la BP in qualsivoglia situazione pone di fatto il governo iracheno sotto la morsa della compagnia britannica e delle sue esigenze economiche.

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