Uno dei cerimoniali piu’ triti inscenati dalle caste che si sono succedute in Italia (l’attuale è la peggiore e la più famelica, ma certo non la prima) e dai vari regimi che le hanno incarnate, è la riunione del governo con le cosiddette parti sociali. Questa peculiarità quasi esclusivamente italiana, raggiunse l’apogeo sotto forma di consociativismo fascista. Da allora le sue nodose e ramificate radici sono state impossibili da divellere.
Ogni volta che vedo sgomitare attorno ad un tavolo (ma ormai serve un cinema, o meglio un circo, per sistemarli tutti) i caporioni con lustrini variamente scintillanti, vado con la memoria ad un articolo di Luigi Einaudi pubblicato il 25 settembre del 1923 su La Rivoluzione Liberale di Piero Gobetti, quando il fascismo nascente lisciava il pelo alle lobbies (come si direbbe oggi) per consolidare la presa del potere:
“…. abbiamo il dovere di dire chiaro e preciso che tutte queste rappresentanze degli interessi, che tutti questi consessi paritetici sono un regresso spaventoso verso forme medievali di rappresentanza politica, verso quelle forme, da cui per perfezionamenti successivi, si svolsero i Parlamenti moderni? Dare alle rappresentanze professionali una funzione deliberativa é voler mettere gli interessi particolari al posto di quelli generali, é compiere opera per lo più sopraffatrice ed egoistica.
Gli “interessi” debbono essere ascoltati e consultati. Ma qui finisce la loro sfera di azione. I “competenti” dell’azione politica non sono e non debbono essere i “competenti” nei singoli rami di industrie o di commercio o di lavoro o di professione. Si può affermare, senza pericolo di errare, che la competenza specifica dell’interessato cessa quando comincia la competenza generale del rappresentante la collettività.[…].
Le rappresentanze degli interessi non rappresentano normalmente neppure la generalità degli interessi presenti. Come si può affermare che la Confederazione generale dell’industria che le Camere di commercio, che il Segretariato agricolo nazionale siano le vere, genuine rappresentanze di tutti gli interessi industriali, commerciali ed agricoli d’Italia? Non lo sono neppure per burla. Questi corpi rappresentano quei gruppi, rispettabilissimi si, ma pochi che avevano appunto un forte interesse da far valere e da patrocinare.”
Oggi, come dagli albori del Ventennio, le “parti sociali” rappresentano interessi minoritari ma ferreamente organizzati, tenuti insieme da un reticolo di relazioni e connivenze a volte visibili, ma sottaciute dai media, come gli appalti ottenuti dal Gruppo Marcegaglia, oppure i posti in consigli di amministrazione per i mandarini sindacali. Più spesso i reticoli sono sotterranei, come la co-gestione sindacale nel pubblico impiego, i sussidi concessi a taluna impresa e negati a talaltra, l’accesso privilegiato al credito bancario, la cassa integrazione straordinaria, i controlli fiscali a “campione”.
I disoccupati non sono parte sociale sono solo numeri, i precari non sono parte sociale, gli studenti universitari non sono parte sociale, gli immigrati che lavorano in nero non sono parte sociale, le donne che dopo aver partorito vengono espulse dal mondo del lavoro non sono parte sociale (dico bene signora Camusso?), i ricercatori non sono parte sociale, i piccoli commercianti che pagano il pizzo non sono parte sociale, i cittadini che cercano giustizia in un Tribunale (sia civile che penale) non sono parte sociale (e lascio a voi aggiungere qualche altra categoria nei commenti).
L’unica consolazione che suscitano gli ultimi banchetti delle iene – di cui le televisioni di regime hanno mostrato le immagini per far sentire importanti alcune dozzine di nullita’ – e’ la consapevolezza che ormai nei piatti serviti tra gli stucchi scrostati di Palazzo Chigi e’ rimasta solo la minestra di caimano bollito. Tra non molto dovranno cominciare a sbranarsi tra di loro per nutrirsi.