Al tempo della Prima Repubblica, la corporazione trasversale del Potere (vulgo Casta) scendeva nella Capitale lasciando manipoli di fiduciari, moderne reincarnazioni di valvassori e valvassini al servizio del Signore feudale, a presidio dei propri bacini elettorali sul territorio. Ammaestrati dall’esperienza di Fiorentino Sullo in quel di Avellino, il potente ministro DC che si era circondato di giovanotti troppo svelti e svegli guidati da un certo Ciriaco de Mita (i quali approfittarono delle sue lontananze romane per “fargli le scarpe”), era cura dei city-boss d’allora reclutare le milizie locali scegliendole secondo criteri che privilegiavano la mediocrità, quale garanzia di totale e rassicurante sottomissione.
Tutto questo in quanto non solo le delizie della politica ma anche gli affari importanti si coglievano a Roma. Di conseguenza il personale di partito rimasto a casa non brillava certo di luce propria. Anzi, concorreva con successo all’abbassamento qualitativo del discorso pubblico locale.
Una corsa al centro – quella dei castali – che si ripropose perfino nel primo tentativo di rifondare la sinistrata democrazia italiana partendo dai luoghi, agli albori della sedicente Seconda Repubblica, con la legge 81 del 1993 che stabiliva l’elezione diretta del sindaco. Il tanto sbandierato (e carico di aspettative) “sindaco dei cittadini”, quale garanzia di partecipazione ma anche di rinnovamento del ceto politico.
Come andò a finire lo sappiamo tutti: i vari Francesco Rutelli e Antonio Bassolino utilizzarono le rispettive cariche civiche da trampolino di lancio per il balzo nell’empireo della grande politica capitolina.
Oggi la situazione si è radicalmente modificata. Un po’ per le derive federaliste, un po’ per la frantumazione delle organizzazioni di partito, ormai il ceto politico locale si è autonomizzato. Infatti, se durante la prima Tangentopoli le manovalanze periferiche incappate nelle inchieste risultavano niente più che spalloni della concussione a vantaggio del Capo o del partito, ora un dato significativo della nuova Tangentopoli è che gli ex spalloni giocano in proprio, trattano da pari a pari con i referenti nazionali.
E, per farlo, i vari politici che operano sul territorio hanno la necessità di coprirsi reciprocamente le spalle. A prescindere delle collocazioni di partito formalmente contrapposte. Tanto per dire, in Lombardia il mellifluo Formigoni si fa gli affari propri, ma qualche boccone c’è anche per l’opposizione. Nella logica di non darsi reciprocamente fastidio, nel comune interesse di tenere tutto sottotraccia.
Dunque la corporazione bipartisan cresce nella dimensione locale e non sente più la necessità di transumanze romane. Anche perché la rendita politica locale della politica non è inferiore a quella nazionale: un consigliere regionale guadagna più o meno quanto un parlamentare (non di rado perfino di più), senza gli impicci e i costi del trasloco. E presidia meglio l’orticello. Guarda caso, il leghista Luca Zaia sceglie la presidenza di Regione Veneto e rinuncia alla poltrona ministeriale.
Soprattutto in quanto il vero business, in questo clima da “ultimi giorni di Pompei”, è rappresentato da cemento e sanità, all’opera nelle varie situazioni locali. Certo riprova della cultura di questo personale politico tragicamente pre-moderno, incapace di immaginare modalità d’accaparramento un po’ più raffinate, un po’ più soft. Comunque – va ribadito – un affare che segui meglio stando sul posto. Lo sapevano bene Filippo Penati e Alberto Tedesco, come i “neomariuoli meneghini” che prosperavano all’ombra della giunta Moratti (tipo il presidente della commissione urbanistica del Comune Camillo Pennisi, arrestato per mazzette).
Il dato che ne emerge è che la trasversalità degli affari acuisce le derive bipartisan. Un caso esemplare è la Liguria, dove il Governatore Claudio Burlando (compagno di calcetto di quel Franco Pronzato arrestato per presunte questioni di appalti) e il cacicco del Levante Claudio Scajola sono così attenti nel non darsi fastidio nei rispettivi settori di competenza (privatizzazione della sanità l’uno, cementificazione della costa l’altro) da privilegiare le logiche dell’intesa spartitoria persino a scapito delle contrapposte militanze di schieramento politico. Difatti il ministro berlusconiano nelle ultime elezioni regionali preferì contrapporre al Governatore uscente antiberlusconiano il candidato più debole possibile: quel Sandro Biasotti che già era finito soccombente nella precedente competizione.
Una situazione ormai sfuggita di mano ai manovratori centrali. Ad esempio, il parlamentare ligure di Idv Giovanni Paladini vota contro la commissione d’inchiesta sul G8 e negozia sistematicamente posti con Burlando, ma Antonio di Pietro si guarda bene dal rimetterlo in riga. D’altro canto, in periferia, le varie organizzazioni di partito neppure si vergognano più di rastrellare il peggio del peggio (riciclati o magari inquisiti) reperibile su piazza.