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London calling, la rivolta della musica

di Elisa Battistini

The ClashChissà se qualcuno, prima di proporla come “jingle” delle Olimpiadi londinesi ne aveva letto il testo. A inizio agosto la Bbc dava London Calling dei Clash come ritornello designato per le pubblicità del “conto alla rovescia” verso i Giochi 2012. Pochi giorni dopo la notizia suona quanto meno paradossale. Perché London Calling (1979) non solo non è per niente una canzoncina felice, visto che richiama tensioni sociali e pure la paura causata dall’incidente nucleare di Three Mile Island. Il paradosso vero è che il brano che dà il titolo a uno dei più grandi dischi del rock inizia così: London calling to the faraway towns, now that war is declared and battle come down. Cioè: “Londra sta chiamando le città lontane, ora che la guerra è dichiarata e la battaglia è arrivata”. Letta mentre dalla capitale inglese è partito un riot che, nel giro di tre giorni, ha tirato in ballo Birmingham (con tre morti investiti), Manchester, Liverpool, è quasi inquietante. Probabilmente, i giovanissimi che stanno assaltando i negozi non conoscono neppure i Clash. O forse sarà come sostiene Marcus Gray, che sulla band ha scritto un libro, ovvero che London Calling è un brano “diventato familiare e di cui si è perso il significato originale”.

Sarà quel che sarà, ma oggi quella canzone riassume all’improvviso i propri connotati. Quelli voluti e cercati da una band politicizzata, che esordisce con un singolo che si intitola White Riot nel 1977. Cantando: White riot/ I wanna riot/ White riot/ a riot of my own/ Black people gotta lot a problems/ But they don’t mind throwing a brick/ White people go to school/ Where they teach you how to be thick. Incitando insomma la “rivolta bianca”, nel senso dei bianchi benestanti inglesi. “Rivolta bianca, mi voglio ribellare, rivolta bianca, la mia rivolta personale. I neri hanno molti problemi, ma non ne hanno a lanciare un mattone, i bianchi vanno a scuola, dove ti insegnano come diventare cretino”.

Non è insomma che sulle intenzioni dei Clash e del suo leader Joe Strummer (morto nel 2002 per un infarto) si possa dubitare. Tanto che proprio da una loro canzone dei primissimi anni Ottanta, Rock the Casbah, la reporter Robin Wright ha tratto il titolo del suo ultimo libro sulle rivolte arabe. Insomma: tutto torna. I Clash non hanno però “agito da soli”. Non solo perché nel rock la ribellione è pervasiva. Soprattutto perché nella musica britannica diventa genere con il punk. Torna, quindi, anche che i Clash fecero da spalla, nel 1976 a Sheffield, a un concerto dei Sex Pistols che del punk furono i fautori. Certo, costruiti a tavolino, diabolicamente voluti dal produttore Malcom McLaren e vestiti dalla di lui moglie Vivianne Westwood. A differenza di Strummer, gli strali di Johnny Rotten, cantante dei Pistols, si configurano infatti subito come meno politici e molto molto molto più nichilisti.

È questa la vena da inseguire per capire come, trent’anni fa, il punk e i suoi epigoni furono profeti rispetto a quel nichilismo contro il benessere, a quel luddismo da XIX secolo che vediamo all’opera in alcune sacche della rivolta inglese. Il rantolo dei Pistols non era direttamente politico (anche se grondante di reazione anti-conservatrice) ma il riot di questi giorni risuona molto anche di Anarchy in The U.K., del 1976, che non parla di ingiustizia, come i Clash, ma incita cieco disordine. Anarchy for the U.K/ Your future dream is a shopping scheme/ ‘Cause I wanna be Anarchy In the city How many ways to get what you want I use the best I use the rest I use the enemy I use Anarchy. Detta altrimenti: “Anarchia per il Regno Unito/ Il tuo sogno futuro è una programma per lo shopping/ Perché io voglio essere l’anarchia. In città/ Di tante vie per ottenere quello che vuoi/ io uso la migliore, uso gli altri/ io uso i nemici/ io uso l’anarchia”. Rotten – che significa “marcio” ed è (grazie al cielo) solo il nome d’arte di Johnny Lydon – è parabola vivente di una voglia di mettere a ferro e fuoco che si spegne nell’affermazione di sé. Perché, mentre il bassista tossico della band, Sid Vicious, ci lascia davvero le penne al Chelsea Hotel nel 1979, Lydon/Rotten continua a suonare con il suo vero (e raffinatissimo) progetto musicale, i Pil. Per poi, negli anni Novanta, imbastire una reunion dei Pistols (dichiarando che aveva bisogno di soldi), andare sull’Isola dei famosi britannica e, ora, far parte di un gruppo di testimonial che tutelano “ville e parchi” della Corona.

Da uno che cantava rabbiosamente God Save the Queen/ The fascist regime (Dio salvi la Regina, il regime fascista), con un ritornello che ribadiva martellante There’s no future for you (Per te non c’è nessun futuro), è la sfacciata rivelazione di una farsa. Anche la rivolta, con il punk, diventa marketing. Se il cinismo (e la genialità) di Rotten gli ha sempre consentito di cavalcare paradossi e contraddizioni della società dello spettacolo, non è stato così per tutti. Nel cosiddetto “post punk”, band e autori musicali hanno analizzato freddamente e senza speranza la possibilità di un riscatto sociale che partisse dalla middle class. La società del benessere, lungi dall’essere scossa dal senso di ingiustizia che porta la gente per le strade, è annoiata e semmai repressa nei suoi istinti più violenti. La società inglese, per i suoi osservatori più sottili, desidera il riot solo per far riemergere l’istinto tenuto a bada dalla buona educazione, dalla scuola, dalle strutture del lavoro che garantiscono il consumo. Il profeta di molte band fu James G. Ballard, il grande scrittore morto nel 2009, allora piuttosto “di moda” nella cultura alternativa anglosassone. Autore di Condominium (1975), storia di un perfetto grattacielo di lusso londinese dove si scatena una vera e propria guerra, Ballard (che diceva: “In una società sana l’unica libertà è la follia”), tratterà il tema per il resto della sua vita (Millennium People è del 2003 ma forse, dopo Condominium il suo capolavoro nel genere è Un gioco da bambini, storia del massacro di 32 adulti in una ricca enclave a pochi passi dalla City). Non è un caso, allora, neppure che i Sex Pistols e Ballard influenzeranno un altro profeta del nichilismo: Ian Curtis, il leader degli Joy Division. Da Ballard, Curtis mutuerà persino il titolo di una canzone: Atrocity Exhibition, titolo appunto del libro più importante dello scrittore. Asylums with doors open wide, Where people had paid to see inside, For entertainment they watch his body twist, Behind his eyes he says, “I still exist”. This is the way, step inside. Canta Curtis: “Manicomi con le porte spalancate, dove le persone hanno pagato per vedere dentro, per divertirsi guardano il suo corpo ondeggiare, dietro i suoi occhi dice: ‘Esisto ancora’. Questa è la via, venite dentro”. Certo, il percorso degli Joy Division nel quadro della “ribellione” è, come quello ballardiano, meno eclatante, più chirurgico e spietato e già perfettamente delineato in Disorder, canzone del 1979 in cui Curtis cantava quel “vuoto” da cui probabilmente le società del benessere non si sono mai riprese (I’ve got the spirit, but lose the feeling – Possiedo lo spirito ma perdo il sentimento).

Dal punk nascono anche i Wire che in una canzone tratta da 154 sembrano descrivere con precisione meccanica quello che in questi giorni si è cercato, in molti casi, di mettere in luce nelle trame delle città inglesi a ferro e fuoco. I figli del consumismo che spaccano vetrine (peraltro, spesso, di negozi di immigrati), con in mano Blackberry, con i vestiti griffati, sono i figli dell’incertezza sociale ma anche della tecnologia e della società dell’apparenza. La fine di On returning (“Di ritorno”, forse a una condizione bestiale), recita: …your sons and daughters registered naught under intensive electronic scanning […] Never lacked a sense of theatre on returning with the tab you’ve gained. A head of world service, the best of your culture. An evening of fun in the metropolis of your dream. “…i tuoi figli e le tue figlie annotano il nulla sotto un’intensiva scansione elettronica […] Non è mai mancato un senso teatrale di ritorno con l’etichetta che avete guadagnato. Un capo dei servizi dal mondo, il meglio della vostra cultura. Una serata di divertimento nella metropoli dei vostri sogni”. Quando tutto è perfetto, tutto è in regola, tutto è programmato e il benessere trionfa, lì c’è il gelo del disagio. Sempre nel 1979, gli Xtc la raccontavano in maniera diversa – o forse non così tanto – in un bozzettino pop-punk sottilmente inquietante: Making plans for Nigel. Due genitori fanno “piani” per il figlio, Nigel “Vogliamo solo quel che è meglio per lui”: We only want what’s best for him We’re only making plans for Nigel He must be happy He must be happy in his work. Il giovane Nigel “deve essere felice. Deve essere felice nel suo lavoro”. Tutto sotto controllo per Nigel, insomma. Forse anche per questo i suoi, di figli, si sono arrabbiati. È il riot dei bianchi cantato da Strummer ad apparire ancora lontano. Così come pare, oggi, difficile sentire London Calling come musichetta pre-olimpionica.

Il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2011

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