L’idea è semplice: abbiamo un debito troppo alto che non si riesce a ripagare? Basta cancellarlo con un tratto di penna e si risolve tutto. L’ipotesi è che il default sia la soluzione e non il problema da evitare. In Italia sta nascendo un movimento proprio all’insegna dello slogan “Non pagare il debito” che ha convocato a Roma la prima riunione all’inizio di ottobre, giusto in tempo per aderire – due settimane dopo – alla manifestazione spagnola degli indignados sullo stesso tema.
I promotori del default come soluzione vengono dalla galassia della sinistra movimentista: da Giorgio Cremaschi della Fiom a Gianfranco Mascia del Popolo viola fino ai no-Tav, Sinistra critica e il Partito comunista dei lavoratori di Marco Ferrando. Per ora è un fenomeno di nicchia, ma gli argomenti del fronte no-debito hanno fascino nel momento in cui l’alternativa sono le lacrime e il sangue dei tagli e delle tasse. “Perché la Grecia dovrebbe rinunciare a stato sociale, diritti, regole, sicurezza; vendere all’incanto i propri beni comuni, a partire proprio dall’acqua, per far quadrare i conti delle grandi banche europee e americane?”, si chiede Cremaschi in un intervento-manifesto sul sito del partito. Circola in rete anche un documentario greco, Debtocracy, sottotilato anche in italiano, un lungo video in cui la Grecia diventa la vittima di un sistema di strozzinaggio internazionale, centrato ieri sul Fondo monetario internazionale e oggi sull’Unione europea. Poi c’è un intellettuale di riferimento per i no-debito, uno dei teorici no-global francesi, François Chesnais, tra i fondatori del Nuovo partito anticapitalista, nato grazie alla popolarità regalata dalla crisi allo storico esponente dell’estrema sinistra francese, l’ex postino Olivier Besancenot.
Ma soprattutto i tifosi della cancellazione del debito hanno un eroe: Raphael Correa, il presidente dell’Ecuador eletto nel 2007. Tra le prime cose che ha fatto c’è stato dichiarare che non avrebbe rimborsato i debiti contratti dal regime precedente: a fine 2008 ordina di non pagare più gli interessi sul debito e manda il paese in default (il secondo in dieci anni), per alleggerirlo dal fardello del debito e ridargli slancio. Nel 2008 il paese è cresciuto del 7,2 per cento, l’anno dopo il default dello 0,4, poi ha mantenuto il suo tasso medio di crescita degli ultimi 20 anni, 2-3 per cento. Piccolo dettaglio: il debito dell’Ecuador era bassissimo a livello assoluto, 10 miliardi di euro, e di interessi pagava 4 miliardi all’anno. Nell’economia mondiale, quindi, nessuno si è accorto della bancarotta del piccolo paese sudamericano che, infatti, l’anno successivo ha deciso un altro mini-default, non pagando altri interessi.
Replicare il liberatorio default di Correa in Italia sarebbe un po’ più complicato: il nostro debito ha superato ieri i 1900 miliardi di euro, di interessi ne paghiamo oltre 75 all’anno. Un default, anche parziale, renderebbe quasi certo il fallimento delle grandi banche italiane piene di titoli di Stato, da Unicredit e Intesa in giù, oltre a scatenare reazioni imprevedibili nel resto del mondo, che detiene circa metà del nostro debito. Si attende l’assemblea di ottobre per capire quale scenario prevedono i tifosi del default nel caso i loro auspici sull’Italia si avverassero.
Il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2011