Il Drop In chiuso per "lavori di ristrutturazione" dal commissario prefettizio Cancellieri. Chiuso e dimenticato. Ma Bologna è una delle pochissime città in Italia rimaste senza un centro di prima accoglienza per chi si droga. Così sono tutti in strada
Istituito nel 2006 dal Comune come servizio sperimentale, il Drop In rappresentava un’avanguardia bolognese nel campo dei servizi sociali. Era l’unico centro di accoglienza in città per più oltre 100 tossicodipendenti, sia italiani sia stranieri, che non essendo residenti non potevano essere inseriti nei programmi del Ser.t. Lì gli operatori distribuivano materiale sterile (siringhe, acqua distillata, tamponcini disinfettanti), davano le indicazioni per avere accesso alla somministrazione del metadone e monitoravano la diffusione di malattie infettive, tra cui anche la tubercolosi, patologia in aumento tra i tossicodipendenti senzatetto (e in particolare tra quelli che fumano l’eroina).
Nei locali di via Paolo Fabbri, la stessa strada cantata da Guccini nella sua famosa canzone, almeno 30 persone per volta potevano trovare per qualche ora un rifugio dalla vita di strada. Oltre a essere un luogo di “riduzione del danno”, il Drop In era uno spazio sociale dove poter guardare la tv o un film, frequentare un laboratorio informatico. Il centro era un rifugio per sottrarsi alla vita di strada, quattro mura dove avere la possibilità di fare una doccia, di farsi la barba, di avere una colazione.
I cancelli del Drop In hanno chiuso il 26 luglio 2010, inizialmente la chiusura doveva essere temporanea, solo per fare lavori di ristrutturazione. “In estate, quando ci arrivò la prima notizia della sospensione – racconta Paolo Patuelli, ex-operatore del Drop In, oggi in cassa integrazione – eravamo convinti dovessimo solo trasferirci in un altro locale, sempre all’interno della struttura di via Sabatucci, tanto che avevamo già cominciato a portare tutte le nostre cose”. A ottobre la doccia fredda: una lettera avvisava della sospensione del servizio e nonostante le diverse promesse per la riapertura, finora tutto è stato vano.
“La chiusura del Drop In – continua Paolo Patuelli – ha sommerso ancora di più quella fascia di persone che già viveva in ombra”. Una zona grigia, composta da decine di tossicodipendenti che non essendo residenti, o essendo in molti casi stranieri senza permesso di soggiorno, trovavano nel Drop In il loro unico punto di riferimento. “È incredibile che in una città come Bologna manchi un servizio di questo tipo, che invece si trova in quasi tutte le altre città d’Italia”.
Il Drop In era uno dei pochi servizi a bassa soglia rimasti nel panorama bolognese, ossia un luogo a cui potevano rivolgersi tutti, anche quelli non iscritti all’anagrafe del servizio sanitario regionale. Sacrificato sull’altare dei conti di bilancio, il ripristino del Drop In non sembra per ora inserito all’ordine del giorno della nuova giunta. Del resto, come dice un altro operatore bolognese, “è come se questo tipo di utenza avesse sempre meno diritto cittadinanza a Bologna”. Forse perché gli utenti del Drop In non votano a Bologna? forse perché si teme l’invasione dei tossici da altre città? forse perché seguire un drogato non residente o straniero costa molto di più per le casse pubbliche rispetto a uno residente?
Oggi sono rimasti pochi i servizi a bassa soglia sopravvissuti in città, tra cui l’Unità di Strada del Comune e l’attività dell’Unità Mobile dell’Ausl, che tutti i giorni si ferma in quattro punti della città per distribuire metadone e siringhe sterili. Ma, di fatto, i tossici rimangono in strada.
di Giulia Zaccariello e David Marceddu