Qual è la cosa più “bella” – sì, esatto la più bella – che un televisore, nel senso dell’oggetto, possa donare nella quiete estiva perfino del primo mattino o anche della cosiddetta controra, al suo spettatore docilmente assonnato dall’azzurro di una vacanza? La risposta, accantonato l’orrore per l’ordinaria programmazione che d’estate assomiglia a un’interminabile diarrea, risiede nella rivelazione improvvisa di un “vecchio” film che sembra avere almeno all’apparenza la sostanza di un semplice tappabuchi: riempitivo, mastice da palinsesto.
Fermiamo qui l’immagine! Non è davvero il caso adesso di svelarne il titolo, prima c’è da fare ritorno all’incubo ordinario. Ecco, credo si tratti di Verdetto finale (Rai1), una roba che sta a Forum come il lompo sta al caviale. Battute a parte, si tratta comunque di un succedaneo di un classico giorno trascorso in pretura, dove c’è modo di provare (si fa per dire) a sbrogliare antiche intricate matasse, cavoli amari familiari che custodiscono fiammeggianti scazzi tra una sorella pronta e la diretta consanguinea circa la gestione di un appartamento posseduto “ai mezzi”. Spiega sorella A: “Come può una storia d’amore iniziata solo sei mesi fa permetterti di pensare che davvero si tratti dell’uomo della tua vita?”. Replica, seccamente, sorella B, la diretta innamorata, l’interessata: “Ma che ne sai tu?”. Insinuando in questo modo che dietro l’apparente preoccupazione affettiva – “di questo passo mi finisce sotto i ponti!” – si nasconda invece un animo da meschina rosicona.
Già, come può lo scoglio dell’invidia arginare l’onda montante dell’amore? Certo che no, tantomeno in un regime di concorrenza, quando c’è da risultare più convincenti di Rita Dalla Chiesa. E così via con il benestare di un redivivo Antonio Lubrano, lì in veste di vecchio saggio, pronto a schierarsi dalla parte dell’innamorata che, ingorda, vorrebbe l’appartamento tutto per sé. Dimenticavo: è davanti agli occhi di Veronica Maya che si svolge il tutto. Mi correggo: davanti alle sue labbra. Contundenti. Chissà cosa starà pensando il pubblico a casa, se davvero gradisce o piuttosto è pronto a sognare un processo ulteriore, che metta fine al teatrino giudiziario, c’è forse qualcuno che lo sa?
Ma è arrivato il momento di rimettere in movimento, di più, di svegliare il fotogramma che avevamo lasciato in sonno per illustrare i crimini del luogo comune. Il momento più “bello”, di più, le parole, i volti, le immagini, i sospiri smerigliati propri dell’amore stavano pochi canali più in là, casualmente su Sky Cult, custoditi da un capolavoro di Francois Truffaut, L’amore fugge. Oh, è bastato ritrovare il racconto di Antoine Doinel e di Colette perché si rimettesse in moto l’autoclave della poesia contrapposta alla certezza del basso impero televisivo. Nel medesimo condominio – nel senso di televisore come scatola visiva e sonora – l’inerme spettatore d’improvviso si è sentito riscattato dalla grazia assoluta della narrazione cinematografica: i fianchi delle ragazze di Montmartre contro il lucidalabbra delle sorelle-figuranti di Verdetto finale. Mi dirai che si tratta di una lotta impari. Sarà pure così, ma esistono anche le isole verso cui fuggire. Grazie Truffaut, hai salvato uno spettatore-forzato dell’estate.
Il Fatto Quotidiano, 14 agosto 2011