Secondo il quotidiano statunitense, il Dipartimento di Giustizia Usa avrebbe aperto un’inchiesta sui giudizi eccessivamente positivi attribuiti dall’agenzia di rating Standard & Poor’s ai titoli tossici della crisi dei mutui subprime. Un’indagine che riporta d’attualità il tema dei conflitti d’interesse vissuti dalle società di valutazione nel momento di loro massima impopolarità internazionale
A prima vista sembrerebbe una vendetta ben congegnata anche se l’origine delle indagini, che si collocherebbe ben prima del mal digerito downgrade sovrano, sembrerebbe fugare ogni dubbio in merito. A qualche settimana di distanza dal suo giudizio di declassamento del rating sui titoli di Stato degli Usa, scesi per la prima volta nella storia al di sotto della rassicurante soglia massima della tripla A, l’agenzia di rating Standard & Poor’s viene messa sotto inchiesta dal Dipartimento di Giustizia di Washington con l’accusa di aver espresso consapevolmente un giudizio troppo ottimistico sui quei titoli tossici del mercato immobiliare all’origine della più grande crisi del dopoguerra. A lanciare l’indiscrezione è il New York Times citando fonti anonime ma bene informate sulla vicenda.
La storia, di fatto, sembrerebbe di una semplicità abissale. Nell’epoca delle vacche grasse, quando il settore real estate sembrava promettere profitti per tutti, S&P, la principale agenzia di rating d’America e del mondo, scelse deliberatamente di sopravvalutare alcuni titoli problematici del settore. Alcuni analisti, incaricati di emettere un giudizio, avrebbero espresso inizialmente valutazioni poco lusinghiere salvo essere successivamente indotti dai loro superiori a modificare il proprio rating. E così, le future obbligazioni “tossiche”, che avevano come collaterale proprio i famigerati mutui subprime, sarebbero state successivamente promosse al massimo grado di investimento. Convincendo di fatto gli investitori a puntare i propri risparmi su una scommessa apparentemente sicura ma in realtà del tutto fallimentare.
La logica, insomma, è nota. E per molti non sarebbe altro che la classica scoperta dell’acqua calda. Le agenzie di rating, sospettano gli inquirenti, non si sarebbero dimostrate sufficientemente imparziali. Ricorrendo al momento del giudizio a scelte dettate forse dalla malafede. Comunque vada a finire, l’inchiesta ha già sollevato quella che dagli albori della crisi è considerata come la vera questione di fondo relativa al clamoroso potere assunto dalle agenzie come S&P. Ovvero il palese conflitto di interessi che le caratterizza. Veri e propri enti for profit, infatti, le agenzie vengono retribuite (tipicamente con compensi a cinque zeri) dagli stessi emittenti di prodotti finanziari che esse stesse sono chiamate a valutare. Inevitabile che una propensione all’ottimismo, diciamo così, finisca quindi per costituire un vantaggio competitivo sul mercato. Tanto più di fronte all’impossibilità di introdurre sulla piazza un prodotto non valutato.
Come se non bastasse, è la stessa composizione azionaria delle principali agenzie a destare più di un sospetto sulla loro inclinazione al ruolo di arbitri super partes. Prendete proprio Standard & Poor’s: la società è totalmente esposta sul mercato, il che significa che tutte le sue quote azionarie sono disponibili alla negoziazione. Ad oggi, il suo azionista di maggioranza risulta essere il mega gestore di fondi statunitensi Capital World Investors, che ne detiene una quota proprietaria pari al 12,45%. Accanto ad esso altri colleghi del mercato della gestione finanziaria come State Street (4,39%), Vanguard (4,22%), BlackRock (3,89%), Oppenheimer Funds (3,84%), T. Rowe (3,36%), Jana Partners (2,95%) e il fondo pensione degli insegnanti dell’Ontario (2,27%). Tra i componenti del Cda, il presidente della società Harold Mc Graw III (proprietario al 3,96%) ma anche Sir Winfried Bischoff (Lloyds Banking Group) e altri illustri ex esponenti di colossi come Coca Cola o British Telecom. Un’occhiata alla composizione proprietaria delle altre due grandi agenzie Moody’s e Fitch (leggi l’articolo di Mauro Meggiolaro) è sufficiente per chiamare in causa le medesime perplessità.
L’eventuale coinvolgimento nell’inchiesta di queste ultime due non è noto anche se una fonte interpellata dal quotidiano Usa non ha escluso questa possibilità. Di certo, tuttavia, è inevitabile osservare come l’indagine del Dipartimento di Giustizia si collochi in un momento chiave per il rapporto tra le istituzioni, i mercati e le agenzie stesse. Da tempo sotto accusa in Europa per la loro propensione al ribasso sui debiti sovrani delle nazioni di Eurolandia (passino i downgrade dei Piigs, ma la minaccia di declassamento della Francia ha fatto letteralmente sobbalzare sulla sedia più di un regolatore a Parigi e Bruxelles), le società sono ormai nell’occhio del ciclone anche negli Usa. A Washington, dove gli errori di valutazione che hanno contribuito al tracollo del mercato subprime sono noti da sempre, non hanno per nulla digerito la scelta di S&P di declassare il debito americano dopo il raggiungimento del tormentato accordo sull’innalzamento dei limiti dello stesso al termine di un’estenuante trattativa tra l’amministrazione e i repubblicani. Una decisione che è suonata quasi come un delirio di onnipotenza da parte di chi, dopo mesi di volatilità speculativa, si era convinto ormai di avere a disposizione quel potere smisurato che garantisce la possibilità di aver ragione anche quando si ha torto (visto che i mercati, notoriamente, seguono a ruota i giudizi concretizzandoli di fatto nelle piazze finanziarie). Anche se ora, forse, negli uffici di S&P a qualcuno sarà pure venuto il dubbio di aver tirato troppo la corda.