L’Egitto ha ritirato il proprio ambasciatore da Israele. La notizia è stata battuta dalle agenzie internazionali poco dopo l’alba di oggi, al termine di un incontro urgente del governo provvisorio, al Cairo, mentre centinaia di persone manifestavano davanti l’ambasciata israeliana nella zona sud occidentale della capitale egiziana.
Alla decisione di ritirare il proprio rappresentante diplomatico in Israele, il governo provvisorio egiziano ha accompagnato una convocazione ufficiale per l’ambasciatore israeliano al Cairo. Il motivo è la richiesta di spiegazioni sull’incidente avvenuto giovedì, quando cinque poliziotti di frontiera egiziani sono stati uccisi dal fuoco partito apparentemente da un elicottero militare israeliano, impegnato nella caccia a gruppi armati palestinesi, come ritorsione per l’attacco avvenuto contro civili israeliani nella località turistica di Eilat, sul Mar Rosso.
Manifestanti hanno bruciato bandiere israeliane e chiesto al governo provvisorio egiziano di fare di più per proteggere il territorio del Sinai, oltreché di espellere l’ambasciatore israeliano. Il primo ministro provvisorio Essam Sharaf non si è spinto fino a questo punto, ma ha chiesto ufficialmente che il governo israeliano chiarisca «con una inchiesta urgente e approfondita le circostanze e le cause dell’incidente». Inoltre, Il Cairo chiede un risarcimento per le famiglie dei poliziotti uccisi e, dato politicamente più rilevante, anche scuse ufficiali da parte del governo israeliano per «le affrettate e improvvide affermazioni sull’Egitto».
Subito dopo l’attacco ai bus turistici ad Eilat (8 morti israeliani e 26 feriti, più sette attentatori uccisi dalle forze di sicurezza israeliane), il ministro della difesa israeliano Ehud Barak aveva affermato che l’incursione «dimostra che la presa egiziana sul Sinai si affievolisce e crescono le operazioni terroristiche in quella regione». Per quanto tutte le accuse israeliane si rivolgono verso la Striscia di Gaza (verso Hamas, ma non solo), dunque l’Egitto è considerato almeno in parte responsabile per non essere riuscito a garantire un’adeguata sorveglianza sul Sinai.
Il governo provvisorio egiziano, pur reagendo alle accuse israeliane con la richiesta di scuse, ha comunque annunciato un rafforzamento del dispositivo di sicurezza lungo la penisola, sia per contrastare eventuali infiltrazioni di gruppi armati sia per prevenire movimenti militari israeliani, scrive il quotidiano israeliano Haaretz.
Dopo la rivoluzione di piazza Tahrir, peraltro, le forze armate israeliane e quelle egiziane sono state in contatto continuo, tanto che Israele ha accettato che l’Egitto inviasse nel Sinai forze superiori a quelle previste dal trattato di Camp David, che nel 1979 segnò la pace tra i due paesi e il ritorno all’Egitto della penisola, conquistata da Israele nella guerra dei Sei Giorni (1967). I dubbi israeliani e il sostegno dato fino all’ultimo momento al regime di Hosni Mubarak ruotano tutti attorno alla questione della “tenuta” del confine meridionale, la cui sorveglianza, negli ultimi decenni – e con un discreto successo – è stata appunto affidata all’esercito egiziano e ai servizi di intelligence del Cairo, guidati negli ultimi anni da quell’Omar Suleiman che Israele avrebbe visto volentieri alla testa della transizione egiziana.
Gli analisti militari israeliani, adesso, iniziano a chiedersi se sia ancora possibile contare sull’Egitto e quanto possa costare, eventualmente, alle casse dello stato già abbastanza provate dalla situazione di bilancio, investire ulteriormente nella protezione del confine meridionale, in un momento di rinata “questione sociale” nelle classi medie israeliane e specialmente tra i giovani. Una delle preoccupazioni ulteriori è che avvicinandosi le elezioni egiziane, alcuni settori politici – non solo e non necessariamente islamisti – per guadagnare consenso possano essere tentati di giocare la carta del sentimento anti-israeliano presente tra gli egiziani più sensibili agli appelli alla solidarietà con i palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.
In questo caso, un’inchiesta accurata e scuse ufficiali per i cinque agenti egiziani uccisi giovedì, potrebbero essere per il governo di Benyamin Netanyahu il male minore, utile a disinnescare sul nascere una crisi diplomatica che, come spesso in Medio Oriente, potrebbe avere conseguenze più imprevedibili del botta e risposta tra razzi e raid israeliani sulla Striscia di Gaza.
di Joseph Zarlingo