Nelle stesse ore in cui il Cnt dava l'assalto a Tripoli, il presidente siriano ammoniva la comunità internazionale su eventuali operazioni contro Damasco. La sua parola è che una volta finita la campagna in Libia, l'Alleanza possa intervenire anche in Siria
Nelle stesse ore in cui le truppe del Cnt libico chiudevano la tenaglia su Tripoli, nell’altra capitale araba al centro delle rivolte, Damasco, il presidente Bashar Assad parlava in una intervista alla televisione di Stato. “Ogni azione contro la Siria avrà conseguenze molto gravi per quelli che pensano di intraprenderla – ha detto il presidente nell’intervista in diretta – Più gravi di quanto possano immaginare. Innanzitutto per la posizione geopolitica della Siria e poi per le sue capacità. Ne conoscono solo una parte, ma non tutte”.
Un avviso non richiesto, visto che nessuno al momento ha ventilato la possibilità di azioni militari contro la Siria, anche se la Casa Bianca e i governi europei hanno ufficialmente chiesto al presidente di farsi da parte. La preoccupazione del regime siriano (confermata dalle analisi militari degli esperti) è che una volta concluse le operazioni in Libia, la Nato possa intervenire anche a Damasco. Soprattutto se le manifestazioni e la repressione di Assad non si fermeranno.
Al Consiglio di sicurezza dell’Onu, infatti, pende ancora una bozza di risoluzione preparata da alcuni governi europei che chiede sanzioni internazionali più dure, dopo quelle varate da Ue e Stati Uniti. Ma finora pesa il niet di Russia, Cina, Brasile e India che sono contrari alla possibilità un intervento internazionale “alla libica”. Tanto più ora che la Nato sembra aver superato le difficoltà politiche nate dopo i raid su Tripoli. Finora, il Consiglio di sicurezza si è limitato due settimane fa a una dichiarazione del presidente, un testo molto meno forte di una risoluzione e anche, a causa delle pressioni russe, rivolto sia al governo che ai gruppi dell’opposizione, egualmente “invitati” a porre fine alle violenze. Che però non sono finite, nemmeno dopo le stragi di Hama, e nonostante l’annuncio fatto pochi giorni dall’ambasciatore siriano all’Onu Jafa’ari.
Alla domanda dell’intervistatore sull’aumento della “militanza” nelle proteste delle ultime settimane, Bashar Assad ha risposto di non essere preoccupato: “Possiamo gestire questa cosa”. Il presidente ha ripetuto la tesi che il regime propone dall’inizio delle proteste ormai cinque mesi fa. Cioè che le “violenze” siano opera di “gruppi armati”, sostenuti dall’estero, e di “terroristi”.
La risposta dei siriani, però, è stata di segno opposto, con alcuni cortei che sono apparsi nelle strade delle città dopo la fine dell’intervista, evidentemente decisa per cercare di mandare un segnale di solidità del regime, non senza un’apertura politica. Le elezioni politiche, infatti, secondo Assad, si potranno tenere a febbraio del 2012, ma nei limiti della legge che pochi giorni fa ha autorizzato la formazione di partiti per rompere il monopolio del Ba’ath che dura dal 1963. Una legge che l’opposizione ha già respinto come largamente insufficiente.
Secondo l’opposizione, inoltre, la repressione è andata avanti anche ieri, con almeno 170 persone che sarebbero state arrestate nella cittadina di Kafar Takhareem. Ieri è anche iniziata la missione di “accertamento dei fatti” affidata all’Ufficio Onu per il coordinamento degli aiuti umanitari (Ocha). La missione è guidata da Rashid Khaliko, dell’ufficio Onu di Ginevra e dovrebbe rimanere in Siria fino al 25 agosto, non tanto per accertare se sia vero quanto afferma il regime sulla presenza di gruppi armati, quanto piuttosto per valutare le eventuali necessità della popolazione delle zone dove ci sono stati combattimenti. Quelli che, stando alle valutazioni della Commissione diritti umani dell’Onu, avrebbero causato almeno 2 mila morti.
L’opposizione cerca di organizzarsi e ha annunciato un nuovo incontro a Istanbul per creare un “consiglio nazionale” che possa iniziare a lavorare sulla transizione. Molti pensano che sia solo questione di quando – e ovviamente di come – Assad lascerà il governo. Dopo Mubarak, Ben Alì e probabilmente Gheddafi. Per quanto Assad possa contare su sostegni internazionali ancora solidi, le minacce velate del presidente siriano suonano fin troppo simili a quelle sentite da gennaio in poi in ogni capitale araba travolta dalla Primavera.