Ricordate Pubblicità Progresso? Quell’istituzione trasversale che riunisce agenzie, concessionarie, utenti e da anni si occupa di campagne sociali ovvero di pubblica utilità? Non la ricordate? In effetti è da almeno un paio d’anni che non fa uscire campagne. È vero che le sue pubblicità sono molto diverse da quelle promosse dalla libera iniziativa delle singole agenzie. Sono meno aggressive e spesso, pur di non pestare i piedi a nessuno, finiscono per essere un po’ piatte e banali. Però è talmente famosa che in alcuni ambienti invece di dire “Facciamo una campagna sociale” qualcuno dice ancora oggi “Facciamo una pubblicità progresso“.
Ecco: vedendo in tv i recenti spot del Governo contro l’evasione fiscale mi sono chiesto come avrebbe affrontato un tema del genere Pubblicità Progresso. Ci aveva già provato la Cgil nel 2009 con una campagna di sensibilizzazione che si limitava rozzamente a descrivere il problema senza indicare una soluzione. Siamo dovuti arrivare – pubblicitariamente parlando – al 2011 per avere una campagna come quella promossa dal Ministero dell’Economia e delle Finanze in cui tecnicamente c’è un minuscolo passo avanti, un call to action, cioè un “invito ad agire”, che probabilmente Pubblicità Progresso non avrebbe mai osato proporre considerando la sua pacata ecumenicità. Per il resto, i “parassiti” di cui parla uno dei due spot ideati dalla Saatchi & Saatchi se la staranno ridendo.
Su questo ha già scritto egregiamente Bruno Tinti. Certo, negli spot si invita a richiedere sempre la ricevuta fiscale, e questa sarebbe una sana abitudine, ma ciò che sfugge ai comunicatori del Governo che hanno stilato il brief su cui l’agenzia ha lavorato è un piccolo dettaglio… quando chiedi la ricevuta o la fattura, la risposta nove volte su dieci è “Senta, sarebbero 100 euro senza Iva. Se vuole io le faccio pure la fattura, ma le viene a costare 120 euro, lo dico per lei…”. E di fronte a questa alternativa la gente si arrende istintivamente. Perché l’ipocrisia che sottende tutta l’operazione governativa è che con Iva o senza Iva, non esiste la detraibilità totale delle spese dalla denuncia dei redditi come invece avviene in America. Dunque una campagna assolutamente inutile. E qui sorge il dubbio: la pubblicità sociale serve veramente a qualcosa?
Vediamo di fare un po’ di chiarezza. C’è un equivoco di fondo su cui si regge tutta la comunicazione sociale e cioè il suo scopo “educativo”. Se la pubblicità fosse veramente capace di educare basterebbe la parola, come diceva una volta il claim della Falqui. Basterebbe uno slogan, un minimo di argomentazione convincente e si modificherebbero attitudini, si creerebbero motivazioni, si indurrebbe a cambiare i comportamenti. Purtroppo la pubblicità non funziona così. Dopo aver visto uno spot nessuno è mai corso a comprare un prodotto. Perché la buona pubblicità (e un tempo ce n’era) serve solo a informare, a far sapere dell’esistenza di un prodotto o di un servizio e a ricordarne i vantaggi. Serve a favorire una scelta nel momento dell’acquisto, quando avverrà. Ma se come oggi la pubblicità non fa più questo lavoro, ovvero fa intrattenimento, non informa o, peggio, tenta di persuadere, non solo è cattiva pubblicità, ma non funziona nemmeno. E allora, se non funziona nella comunicazione commerciale perché mai dovrebbe funzionare nel sociale?
Non si può sostituire il lento lavoro dell’educazione della persona con uno spot di 30 secondi. Se così fosse, basterebbero in tutto un paio d’ore di spot (anziché una ventina d’anni di dialogo) per educare un figlio e forse solo una giornata per laurearsi. La pubblicità nasce come leva del marketing per orientare le scelte dei consumatori e la sua “etica” è circoscritta a questo semplice servizio. E tale deve rimanere. Se comincia ad avere anche ambizioni “educative” non resta più nulla che la distingua dalla propaganda. Che non è pubblicità.