Dopo l'uccisione degli agenti egiziani da parte dei militari israeliani, in Egitto monta la protesta contro lo Stato ebraico. Soprattutto dopo l'uscita di scena di Mubarak che è sempre stato il garante degli accordi del 1979
Politico scaltro, Hosni Mubarak. Senza dubbio. Tanto da usare il suo sempre reiterato sostegno alla politica statunitense nella regione come una vera e propria moneta di scambio. Sorreggere Camp David con il proprio peso, il proprio ruolo, il proprio controllo del paese arabo più importante. La frontiera meridionale di Israele è stata salva, grazie a Mubarak e a forze armate egiziane che ricevono da Washington i finanziamenti previsti dall’accordo di pace del 1979, e la conseguente preparazione militare. In cambio, gli Stati Uniti – nelle varie amministrazioni che si sono succedute – hanno chiuso entrambi gli occhi non solo sulla repressione interna operata dal regime di Mubarak contro tutti i tipi di opposizione. Non solo quella islamista. Hanno anche accettato che Mubarak disegnasse una successione inaccettabile come quella di suo figlio Gamal Mubarak. Come – ha ripetuto spesso il più noto scrittore egiziano, Alaa al Aswany – se il più importante paese arabo fosse un “allevamento di polli”.
Uscito di scena Mubarak – ma non ancora un sistema politico, di sicurezza e militare costruito in alcuni decenni -, Camp David mostra ora tutte le sue crepe. Come una pianta che non è mai stata curata. Semmai tenuta in vita artificialmente, a suon dei miliardi di dollari, versati annualmente nelle casse di Tel Aviv e del Cairo perché previsti dagli accordi di pace. La ragione della malattia è chiara, e non è originata – come potrebbe sembrare a una prima, superficiale analisi – da un pregiudizio anti-israeliano nel cuore dell’opinione pubblica egiziana. È vero, verissimo, molti egiziani (la stragrande maggioranza) sono pervicacemente anti-israeliani. Contestano l’occupazione da parte degli israeliani dei territori palestinesi in cui sono da 44 anni or sono. Criticano profondamente quello che definiscono il doppio standard usato dall’Occidente nel suo complesso, e dagli Stati Uniti in particolare nei confronti di israeliani e palestinesi. Contestano la vergogna di Gaza, di un pezzo di terra in cui vivono, come fosse una prigione, oltre un milione e mezzo di uomini e donne. Criticano una politica, quella egiziana, che ha usato i palestinesi spesso come un alibi, o un’arma di ricatto. Si oppongono al modo in cui la politica di Israele ha trattato il Medio Oriente, ma non alle migliaia di turisti israeliani che riempiono da anni i resort del Sinai.
Succede, dunque, che un uomo si arrampichi in cima a uno dei tipici palazzoni del Cairo, di oltre venti piani, a due passi dallo zoo e dall’università principale della megalopoli. Succede che questa specie di ‘uomo ragno’ improvvisato sostituisca – due notti fa – la bandiera israeliana (l’ambasciata di Tel Aviv è al tredicesimo piano) e la sostituisca con quella egiziana. Succede che quell’uomo diventi l’ultimo eroe del paese. Climbing like an Egyptian, ripetevano i ragazzi di Tahrir su twitter.
È il simbolo dell’isolamento di Israele in Medio Oriente? In parte sì, ma solo a patto di mettere quel gesto e quell’uomo all’interno di un puzzle molto più complesso, di cui le rivoluzioni arabe fanno parte. Camp David è moribonda perché nessuno l’ha curata. Né Israele, né l’Egitto, né tanto meno gli Stati Uniti che hanno fatto firmare quella pace. La sta facendo morire una mancanza di strategia regionale che ha contribuito a far montare il disagio, la voglia di democrazia, i sogni degli arabi, all’ombra di una diplomazia poggiata sulle carte e non sugli uomini.
di Paola Caridi