L’Ue potrebbe cercare di estendere il protocollo di Kyoto, in scadenza l’anno prossimo, fino al 2018. Una missione non facile, visti i dubbi da parte degli stessi paesi membri stanchi di combattere da soli la battaglia mondiale contro il cambiamento climatico. Stipulato nel 1997, entrato in vigore nel 2005 e in scadenza nel 2012, l’accordo internazionale salva-clima avrebbe dovuto portare i 183 paesi firmatari a ridurre le emissioni di anidride carbonica (e degli altri gas responsabili dell’aumento della temperatura terrestre) del 5.2 per cento rispetto ai livelli del 1990. Ma la mancata ratifica degli Stati Uniti e le misure non vincolanti per grandi economie emergenti come Cina e India continuano a comprometterne gli obiettivi.

L’Unione europea, che a fine anni Novanta aveva abbracciato Kyoto come la grande panacea contro il cambiamento climatico, si trova adesso a dover scegliere se spingere per estenderlo o lasciarlo affondare, consacrandone così il fallimento. Secondo le ultime indiscrezioni trapelate da Bruxelles, l’Ue sarebbe più orientata verso l’estensione, sia per rilanciare i negoziati climatici (in stallo ormai da anni), sia per rigenerare il Clean Development Mechanism (CDM). Si tratta del meccanismo di sviluppo sostenibile previsto dal protocollo che permette alle imprese dei Paesi industrializzati di attuare interventi per la riduzione di Co2 in quelli più poveri per acquisire “crediti” utili a controbilanciare le proprie emissioni.
L’Ue però potrebbe giocare un ruolo di prima fila nella lotta contro la “febbre del Pianeta”, solo se riuscirà a convincere tutti i 27 paesi membri. Appuntamento a ottobre in vista della Conferenza internazionale sul clima che si terrà a Durban, in Sud Africa, il mese successivo. Un compito non facile visti i dubbi già espressi da Bruxelles sia per la non ratifica degli States sia per la non obbligatorietà di ridurre le emissioni per Cina e India. Se a questo si aggiungono poi i dubbi sull’estensione del protocollo da parte di Giappone, Russia e Canada, la missione diventa quasi impossibile.

“Non penso che l’Europa possa farcela da sola”, aveva detto Artur Runge-Metzger, rappresentante dell’Ue ai negoziati della conferenza sul clima di Cancun. “Noi copriamo circa il 10 per cento delle emissioni mondiali mentre non abbiamo la più pallida idea di cosa succeda con il restante 90 per cento”. Lo scorso gennaio, sempre dopo Cancun, Jos Delbeke, direttore generale del dipartimento sul Clima della Commissione europea, aveva ribadito l’appoggio dell’Ue a Kyoto, ma aveva espresso seri dubbi sul “valore aggiunto di trovarsi da soli a supportare una seconda fase del protocollo senza Stati Uniti, Cina, Russia e Giappone”. Insomma, la paura dell’Ue è di trovarsi da sola in questa battaglia.

Per capire come l’Europa possa trovarsi isolata, basta guardare il tira e molla sull’inserimento del traffico aereo all’interno del mercato europeo delle emissioni Co2. Sia Cina che Stati Uniti hanno risposto prima con un’alzata di spalle alla richiesta di Bruxelles, poi addirittura minacciando ritorsioni commerciali (Cina) e denunce in tribunale (Stati Uniti). Certo, a sentire la commissaria Ue al Cambiamento climatico, la danese Connie Hedegaard, l’Unione europea sembra essere più determinata. “Ci sono voluti dieci anni per stabilire il quadro legislativo internazionale di cui disponiamo oggi. Non possiamo permetterci di buttare tutto via adesso”.
Una cosa è certa: se l’Ue vorrà davvero convincere i grandi del mondo a prolungare Kyoto fino al 2018, non potrà più giocare la parte della pecorella come fatto al vertice di Copenaghen nel dicembre 2009. In quell’occasione, mentre i 27 leader europei erano chiusi in una stanza a cercare un difficile accordo tra loro, Usa e Cina decidevano per tutti, facendo dell’intero summit un enorme buco nell’acqua.

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