Dopo aver sradicato Gheddafi, Francia e Gran Bretagna organizzano a Parigi la spartizione del bottino quando ancora si spara. Borse che vanno tranquillizzate.
Sarkozy fa sapere che l’operazione Libia gli è costata “appena 200 milioni”, mezza giornata nera di Wall Street. Adesso va all’incasso. Nessuno gli ruberà il petrolio che ha in mente assieme alla ricostruzione del Paese sgretolato dalla guerra. Noi e Londra siamo stati i primi a convocare un fronte internazionale, primi a bombardare, primi a riconoscere i ribelli, primi ad armarli e a organizzarli con nostri istruttori “mentre Jibril, vecchio ministro di Gheddafi, era ancora una foglia al vento”. L’inchino col quale Sarkò lo riceve all’Eliseo, è la cortesia di chi ha coltello in mano, non il baciamano dei cavalieri che imploravano affari. Obama vuole la sua parte. Gli Usa hanno speso di più, devono incassare nei mesi della campagna presidenziale. Agli altri bombardieri, le briciole. Tanto per esibire qualche voce amica, noi ci appoggiamo a Jalloud, da 30 anni fuori dal potere dopo essere stato la spalla reale di Gheddafi. Andava e veniva, sempre un po’ bevuto, con in tasca le mazzette Parmalat.
Ma se in Libia comincia la guerra delle mani che si allungano, il ritorno trionfale di Francia e Gran Bretagna nella stanza dei bottoni che decidono l’Oriente mediterraneo, è il segno drammatico del fallimento di Europa e Stati Uniti. Per 90 anni hanno congelato le dottrine imposte dopo il crollo dell’Impero ottomano. La Francia stacca il Libano dalla Siria: Beirut porto chiave in fondo al Mediterraneo. L’Inghilterra stacca il Kuwait dall’Iraq: porto chiave e petrolio.
E il sentimento del ritorno che accompagna il sionismo trasforma Israele in sentinella dell’Occidente nel cuore confuso del mondo arabo. La nascita di Israele e l’equilibrio ritrovato con fatica nel controllo dell’Egitto di Mubarak danno l’illusione di un colonialismo invisibile ma obbediente, da nutrire e armare dietro l’ipocrisia della “stabilità”. Se Il Cairo si adatta alla dittatura, i padri e gli intellettuali e gli scrittori che raccontano Israele non sono d’accordo con la destra bombe e cannoni: Begin, Sharon, Netanyahu.
Profezia di Nahum Goldman che nel ’38 ha fondato e poi presieduto il Congresso ebraico mondiale e nel ’47 convince il cancelliere tedesco Adenauer a risarcire Israele dallo sterminio della Shoa. “Sbagliato disperdere energie preziose nella tecnologia delle armi e nella difesa eterna”. Elabora uno scenario nel quale recuperare l’enorme creatività da concentrare su temi culturali, sociali, spirituali per trasformare Israele in motore di modernizzazione e pacificazione. E per uscire “dall’immensa tragedia che israeliani, palestinesi e altri popoli della regione stanno vivendo” (ricordo dello storico Bruno Segre), Goldman dialoga e progetta assieme ai palestinesi.
Anche un altro “padre” senza tenerezze si preoccupava di superare la logica del conflitto: Goldman rivive ne Il Paradosso il colloquio con Ben Gurion. “Siamo sopravvissuti all’antisemitismo, ai nazisti, ad Auschwitz: ma loro (i palestinesi) cosa c’entrano? Capiscono una sola cosa: siamo venuti e abbiamo rubato il loro Paese. Perché dovrebbero accettarlo?”. L’altro vecchio lo consola: bisogna parlare, non sparare o continuare a mangiare le loro proprietà. Perché si rivoltano e noi rispondiamo, e loro riattaccano: dove andremo a finire?
Due corpi ancora in vita simboleggiano lo strabismo dell’Occidente: l’implacabile Sharon, da cinque anni respira come un vegetale; Mubarak in barella al processo. E gli errori continuano. Come mai, appena arrivato a Damasco, Robert Ford, nuovo ambasciatore Usa, carriera nella Cia di Dimitri Negroponte, come mai si fa fotografare ad Hama mentre cominciava a brontolare la rivolta?
Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2011