“Non è la prima volta che vengo a manifestare davanti alla mia ambasciata ma è la prima volta che lo faccio a volto scoperto”. Gamal El-Hasati non si sente più perseguitato, mostra il volto ai fotografi e sventola la bandiera della Libia sotto il naso di cinquanta poliziotti schierati a ferro di cavallo davanti all’ambasciata libica nel quartiere di Zamalek al Cairo.
Ogni volta che veniva organizzato un sit-in davanti all’ambasciata, Gamal c’è sempre stato ma in incognito e pieno di paura: un cappello e un paio occhiali da sole, a volte anche un fazzoletto per coprirsi il volto, erano il suo scudo. “Ho sempre avuto paura di mettere in pericolo mio padre che vive e lavora a Tripoli. Qui è pieno di spie. Ma ora è diverso”. Diverso perché i ribelli sono entrati a Tripoli, superando le milizie e i cecchini appostati all’entrata della città e occupato il compound del Colonnello, simbolo dell’imperituro potere di Muammar Gheddafi. “E’ fatta, il raìs è finito”. Gamal ne è certo anche se le notizie che arrivano da Tripoli sono confuse, si combatte nelle strade, la mappa delle zone conquistate dai ribelli e quelle ancora in mano ai lealisti è da definire ed è impossibile capire il numero delle vittime. Lui non ci crede, crede alle parole del padre che ieri ha sentito al telefono: “Stai tranquillo, mi ha detto, siamo a un passo dalla fine, è questione di giorni”.
La prudenza è una virtù scomoda e ingombrante nella testa delle centinaia di ragazzi libici (l’altro ieri erano circa 500) che da due giorni si incontrano davanti all’ambasciata nella capitale egiziana. “Volevo salire sul tetto e sostituire la bandiera verde di Gheddafi con questa, la bandiera della Libia e del popolo libico” dice Ahmed Amoush che come Gamal ha parte della famiglia in Libia. Fortunatamente ci ha ripensato “per ora” aggiunge “domani non so”. Scalpitano, gioiscono, si infervorano al suono della parola democrazia, sognano di tornare nel proprio paese. “Siamo pronti per costruire finalmente una comunità democratica”, dicono i due amici. Il rischio che la Libia del dopo-Gheddafi possa attraversare una lunga zona grigia come sta succedendo in Egitto non li sfiora. Il Consiglio nazionale transitorio rappresenta, secondo loro, la chiave di volta. “Quando era ministro della giustizia Jalil (Mustafa Abdel Jalil, Presidente del Cnt con sede a Bengasi, ndr) ha spesso cercato di ostacolare Gheddafi proponendo riforme sostanziali al sistema giuridico e ha denunciato la costante violazione dei diritti umani in Libia. Appena è stato possibile ha abbandonato Tripoli per formare il Consiglio nazionale transitorio. E’ stato il primo a rinnegare Gheddafi”.
La presenza e il ritorno in auge di molti ex che per anni hanno fatto parte integrante dell’inner circle del Colonnello, non li spaventa. “Ci sono dei personaggi che ritornano in vita grazie ai media. Prendi ad esempio le parole di Abdessalem Jalloud. E’ uscito dalla politica negli anni Novanta. Le sue parole non hanno alcun peso. Per noi è morto e sepolto da tempo” dice Munir Betelmal che è tornato dalla Libia pochi giorni fa dopo le due settimane canoniche di addestramento militare obbligatorie per tutti i libici. Quando era nel Paese, Munir racconta di aver assistito a un’imponente manifestazione di solidarietà tra i cittadini. “Quasi tutti in casa hanno un’arma e in alcune zone della capitale gli abitanti hanno organizzato ronde notturne per impedire ai lealisti di riprendere terreno. Questa è una battaglia che tutti devono e vogliono combattere”. Il sogno di Munir sarebbe stato quello di far parte della grande onda rivoluzionaria che sta sgretolando la Grande Giamahiria voluta da Gheddafi per “fare spazio a una nuova Libia democratica”, spiega, “ma aspetterò per realizzare un altro mio grande sogno: lasciare l’Egitto e tornare a vivere dalla mia famiglia in Libia”. Senza Colonnelli, libretti verdi e bandiere monocolore.
di Alessandra Cardinale