La Chiesa italiana finge di non capire. Di fronte alla richiesta di partecipare in prima persona ai sacrifici richiesti per evitare il crac dell’Italia fa spallucce, si affida a interventi di amici che esaltano il suo ruolo sociale di assistenza, sparge la voce che tutto si riduce a un polverone. Giorni fa sull’Avvenire è apparsa una sorta di imitazione della celebre canzone di Jannacci “Quelli che…” nel tentativo di presentare come sprovveduti coloro che pongono domande. Meglio additarli come nemici della Chiesa alla ricerca di un “mostro” da demonizzare. Nell’arena politica i maggiori partiti – da destra a sinistra – si guardano bene dall’entrare nel merito, terrorizzati che in campagna elettorale la gerarchia ecclesiastica possa vendicarsi. Ma il gioco non sta funzionando con l’opinione pubblica e il tentativo di tirare in ballo il laicismo o l’anticlericalismo non attacca. Conviene allora rimettere in fila le questioni, in attesa che la gerarchia ecclesiastica dia quelle risposte puntuali che finora non si sono sentite.
Separiamo le problematiche degli enti vaticani dalla sfera che attiene alle responsabilità e ai privilegi della Chiesa italiana. Sono due ambiti distinti, uno internazionale e l’altro nazionale. Fermiamoci all’ambito nazionale. La domanda primaria è questa. Perchè la Conferenza episcopale, percettore di finanziamenti statali pari a circa un miliardo di euro (attraverso l’8 per mille) ritiene di non dovere partecipare a una parte dei versamenti di denaro pubblico nel momento in cui sono intervenuti pesanti tagli all’istruzione, alla sanità, agli enti locali con riflessi pesantissimi sulla vita dei cittadini italiani? Perché deve trionfare il motto, assai poco evangelico, “quello che mio è mio, però sul vostro deficit offro utili consigli”? Finora non è venuta dalla Chiesa nessuna risposta convincente. Nessuno nega che dagli enti ecclesiali di assistenza, da tante parrocchie, da molti vescovi, dalla stessa Cei siano venute in questi anni di crisi iniziative molteplici a favore dei più deboli. Il punto è un altro. Ora che il bilancio statale è sull’orlo del tracollo, la Chiesa è disposta o no a rinunciare a una quota del finanziamento pubblico?
Tra le voci indignate di parte ecclesiastica o tra i frettolosi difensori d’ufficio nessuno è riuscito a spiegare perché non si possa ricalcolare – in base allo stesso accordo che istituì l’8 per mille – il gettito che arriva alla Chiesa cattolica grazie a una macroscopica stortura del meccanismo di conteggio delle indicazioni dei cittadini. È un dato di fatto che gli introiti percepiti dalla Cei sono cresciuti in maniera sproporzionata rispetto alla somma iniziale della “congrua” che venne abolita nel 1989. Se allora corrispondeva a 406 miliardi di lire all’anno, l’attuale miliardo di euro equivale a quasi 2000 miliardi di lire. Persino tra i negoziatori della revisione concordataria attuata da Craxi, c’è chi avverte il problema. Anni addietro, uno dei negoziatori – il professore Carlo Cardia, editorialista dell’Avvenire – conveniva su fatto che l’8 per mille potesse diventare un 7 per mille per frenare la crescita esponenziale delle somme versate dal bilancio statale. È facile per i difensori perinde ac cadaver dell’istituzione ecclesiastica affermare che si dicono “balle” sugli immobili della Chiesa. Peccato che al momento di rinnovare il concordato il Vaticano non abbia voluto imboccare la via tedesca, dove i finanziamenti pubblici a una diocesi arrivano solo se la diocesi pubblica il suo bilancio. In Italia questo non si è fatto. La Chiesa rende conto dell’8 per mille, ma resta oscura sullo stato patrimoniale delle sue diocesi.
Così come non c’è trasparenza sull’ambiguità scandalosa di molte situazioni di frontiera di tanti immobili religiosi in cui l’ospitalità non è più semplicemente elargita al viandante pellegrino o al fedele in cerca di raccoglimento, ma è parte coerente di un’offerta alberghiera per il turismo religioso-culturale. Attività legittima e degna, ma su cui è giusto che si paghino tutte le tasse senza scappatoie. In realtà in campo finanziario la Chiesa italiana si è sempre comportata nei confronti dello Stato come una lobby tra le altre lobby, pronte a mungere le casse pubbliche. C’è un esempio eclatante. L’8 per mille è il finanziamento ideato per assicurare alla Chiesa i mezzi necessari alle sue finalità spirituali, di culto e umanitarie. Sostituisce la “congrua”, popolarmente considerata come lo stipendio dei preti.
In nome di quale principio allora lo Stato deve pagare nuovamente il personale ecclesiastico presente nelle carceri, negli ospedali e nelle case di cura? Nessuno disconosce la loro funzione – specialmente l’impegno straordinario di tanti preti e e tante suore nelle prigioni – ma è già stata finanziata globalmente dall’8 per mille. Se la funzione di assistenza spirituale è stata garantita dallo Stato alla Cei per tutto il personale religioso, diventa un fatto interno dell’istituzione ecclesiastica su quali fronti impegnarlo. Dopo il Concilio la Chiesa si è resa conto che non corrispondeva al profilo religioso di una comunità che si richiama Gesù Cristo chiedere soldi ai fedeli per una messa o un funerale. Si capì che bisognava cambiare rispetto alle “tariffe” del passato. Ora è l’ora per la gerarchia ecclesiastica di fare un altro salto: rinunciare a spremere lo Stato il più possibile. Nell’ora della crisi è inutile fingere di non capire.
Il Fatto Quotidiano, 24 agosto 2011