Ha fotografato Jarmusch, Araki, Patti Smith, Cristina Ricci, Vittorio Gassman e Jim Carrey, Antonioni e Ligabue, ma Federico De Luigi ha sempre sottratto i suoi soggetti dal patinato uniformante delle immagini ufficiali, cercando di mostrarne espressioni stranianti, risate, difetti e sbavature. "A prescindere dalla tecnica osa, osa sempre, ogni volta che scatti, osa, a prescindere da come la pensi, osa più che puoi".
Non può che parlare per immagini Enrico De Luigi, in arte Chico, classe 1966, professione fotografo. Lo fa da sempre, almeno a giudicare da quell’immagine in bianco e nero che lo ritrae, bambino, con una macchina fotografica in mano a ritrarre una bella signora sdraiata su un letto con un bambino tra le braccia: mamma e fratellino appena nato.
Ritrattista e fotografo di scena, Chico vive la sua vita poco normale a Rimini con la moglie, nella casa di due gatti neri. Le sue immagini sono comparse sulle più prestigiose riviste nazionali ed internazionali. Ha vinto premi (come quello per la miglior fotografia di scena attribuito a uno scatto sul set di Caos calmo, un intenso bianco e nero con Nanni Moretti e Valeria Golino), fotografato in Polaroid 50×60 attori e registi ai Festival di Venezia e Berlino, collabora da anni con la Fandango (ha da poco terminato L’ultimo terrestre, esordio cinematografico del fumettista Gipi che sarà presentato al prossimo Festival di Venezia). Ha lavorato come operatore super 8 a “Super 8 stories” di Emir Kusturica, il documentario con le gesta della rock band del regista.
La galleria di personaggi catturati dal suo obiettivo è impressionante: Jim Jarmusch, Christina Ricci, Patti Smith, Vanessa Redgrave, Filippo Timi, Vittorio Gassman, Vinicio Capossela inseguito durante il tour americano del suo penultimo cd “Da solo”. E ancora Penelope Cruz e consorte Xavier Bardem, Michelangelo Antonioni, Jim Carrey ed Helena Bonham Carter, i nostrani Ligabue, Jovanotti, Sergio Rubini, Margherita Buy. Tutti sottratti al patinato uniformante delle immagini ufficiali, nell’intento di mostrarne espressioni stranianti, risate, difetti e sbavature.
E a vederlo, Chico, con la sua aria a metà tra alieno e folletto e i chiarissimi occhi azzurri, il volto plastico di chi ha riso tanto e tanto ha preso in giro se stesso e gli altri, si comprende che ci deve essere una sorta di fluido che da lui emana e contagia i soggetti delle sue fotografie, famosi e non, e che li spinge a rivelare il proprio spirito più folle e irriverente, assieme a una nudità (che non disdegna, secondo le sue dichiarazioni, specie se di belle donne) che non nasce da malizia ma dalla volontà di rivelazione naturale e profonda del proprio io, e che forse per questo diventa alla fine più erotica ed erotizzante, come nel mascara sbavato di alcune foto di Claudia Pandolfi, sua grande amica.
Alla sua Rimini ha dedicato una serie di scatti collezionati tra il 1989 e il 1998: una Rimini in bianco e nero di nostalgia gaudente e popolana, tra tette in vetrina, pali di lap dance e conversazioni animate di anziani che sfogliano una qualche Gazzetta di Romagna su una panchina. Una Rimini svelata nella sua doppiezza, da un lato scenario di cartapesta per turisti, con la promessa di sesso facile e belle bagnanti nordeuropee, dall’altro la città chiusa in sé e di sé gelosa, quella che i villeggianti non conoscono né conosceranno mai, che Rimini sa conservare il suo cuore più segreto solo per i riminesi, lasciando gli altri ai girarrosti del lungomare.
Una serie di immagini che ha, tra le altre cose, accompagnato con un libretto il cd di un giovane e talentuoso cantautore riminese, Daniele Maggioli, che qualche anno fa con il suo “Pro Loco” dipinse in un concept album l’immagine della Rimini sospesa tra turismo caciarone e stereotipo e la città che difende il suo cuore più antico, quella che anche a novembre vive assieme alla nebbia sulla spiaggia. Anche se quello che lo attrae maggiormente è la geografia intima dei volti e dei corpi, quella che rivela un’intera esistenza, il modo di affrontare cose e casi della vita nascosto dietro a un aggrottare di ciglia o più spesso all’esplosione di riso e al ghigno, alla smorfia, alla linguaccia.
Mappature dell’anima, volti e corpi che rivelino la propria unicità, come fece con la mostra Soul Maps, nella quale ritrasse volti e corpi tatuati, che raccontassero nei segni indelebili di inchiostro la propria personalissima storia. Lo fa continuamente con il suo “No Panic Therapy”, un workshop che porta in giro per l’Italia e che definisce con queste parole: “i workshop No Panic sono esperimenti catarifrangenti del mio approccio bizzarro alla fotografia.
Tecnica? Forget about it! In un workshop No panic entri che sei tu ed esci che sei te stesso, sarà come se a metterci a fuoco fosse stato un frullatore”. Chi scrive partecipò qualche tempo fa a uno di questi esperimenti, in un locale di Santarcangelo di Romagna, altra terra di artisti, poeti e vecchi saggi. Chico fece indossare ai partecipanti strettissime calze di nylon sulla testa, e fotografò poi impietosamente i volti deformati, i nasi schiacciati e le bocche storte nella morsa, il viso reso maschera di gomma a rivelarne ogni umanissimo difetto e storpiatura.
E d’altra parte il mantra sul suo sito recita “a prescindere dalla tecnica osa, osa sempre, ogni volta che scatti, osa, a prescindere da come la pensi, osa, osa più che puoi, potresti accorgerti che sei all’altezza giusta per poterlo fare. Osa”. Tra i tanti scatti ce ne sono alcuni che più di altri rivelano il suo tocco unico: la (solitamente) imbalsamatissima Michela Quattrociocche, reginetta incontrastata del moccianesimo al cinema, che ride a bocca larga e con un paio di boxer maschili, simpatica, vitale, esplosiva, addirittura sexy come una lolita. Questo si chiama osare. E riuscirci.