Venerdì il presidente della banca centrale statunitense Ben Barnanke annuncerà i piani di politica monetaria. Le borse sperano in una manovra di Quantitative Easing, ovvero il massiccio acquisto di titoli del Tesoro e immissione di liquidità nel sistema. Ma la misura è improbabile, perché più che l'economia reale, se ne avvantaggerebbero gli speculatori
Ben Bernanke per il momento tace e tutto lascia presagire che il suo silenzio durerà fino a venerdì, il giorno che ogni operatore, da Wall Street a Londra passando per Francoforte e Parigi, ha da tempo segnato in rosso sul calendario. Nell’ultimo giorno di contrattazioni della settimana, il numero uno della Federal Reserve incontrerà il suo omologo della Bce Jean Claude Trichet e gli altri colleghi delle banche centrali di tutto il mondo per discutere dell’attuale congiuntura economico-finanziaria (più che preoccupante) e dei rimedi a disposizione (pochi) dei vertici delle politiche monetarie. Un incontro, quello di Jackson Hole, Wyoming, che da qualche tempo alimenta le speranze delle borse. Ma che in definitiva, forse potrebbe tradursi per i mercati in una cocente delusione.
“Quelli che si aspettano nuovi grandi piani da parte di Bernanke rischiano di restare delusi – scrive oggi il Washington Post -. Lui e gli altri dirigenti della Fed vedono gli attuali segni di debolezza in modo diverso rispetto allo scorso anno e intendono valutare ulteriori prove prima di fare la prossima mossa”. L’analisi, insomma, è piuttosto chiara. Allo stato attuale delle cose, difficilmente Bernanke opterà per il tanto atteso QE3, la terza manovra di Quantitative Easing consistente, di fatto, nel massiccio acquisto di titoli del Tesoro statunitense. Un intervento da 700 miliardi di dollari che ricalcherebbe analoghe operazioni condotte in precedenza irrorando di liquidità il sistema con effetti decisamente discutibili. Ma andiamo con ordine.
Quando la crisi è scoppiata ufficialmente, dopo il default della Lehman Brothers, gli Stati Uniti hanno dovuto affrontare il problema di una sostanziale mancanza di liquidità. Le banche hanno stretto i cordoni della borsa, i tassi interbancari sono saliti alle stelle, e l’economia si è trovata priva della benzina sufficiente per far ripartire il sistema Paese. I prestiti alle banche e l’abbassamento dei tassi di interesse più o meno a quota zero hanno rilanciato le attività finanziarie dando una prima confortante impressione di efficacia. Ma gli effetti collaterali non si sono fatti attendere. E la crescita, oggi quasi esaurita, non è stata sufficientemente apprezzabile.
Cos’è accaduto? Semplicemente quello che, visto oggi, appare come la conseguenza più logica di quell’intervento: la raccolta a piene mani di un formidabile assist alla speculazione. Gli operatori si ritrovati allora nell’invidiabile condizione di poter prendere a prestito denaro a costo zero per reinvestirlo in un mercato fortemente ribassato come quello azionario o, meglio ancora, nel sempre promettente comparto dei cambi (1 miliardo di miliardi di dollari di controvalore delle operazioni condotte ogni anno). I risultati sono stati un preoccupante rigonfiamento delle borse (all’inizio del 2010 l’Economist ha valutato che la borsa di Wall Street fosse sopravvalutata del 50%), un aumento della speculazione sulle materie prime (metalli, petrolio, commodities alimentari) e una nuova primavera del carry trade con tanto di esodo dei capitali verso i Paesi emergenti. Insomma, a beneficiare della rinnovata liquidità, sono stati nell’occasione gli operatori finanziari e non tanto, come si sperava, l’economia reale. E la sostanziale stagnazione odierna sembra confermare in pieno questa interpretazione.
Alla luce dell’esperienza passata, dunque, sembra facile intuire il motivo per cui Bernanke non sembra intenzionato a cedere alle pressioni di Wall Street. Non tanto per le “minacce” del candidato alle primarie repubblicane Rick Perry, scagliatosi proprio contro il numero uno della Fed di fronte all’ipotesi di un nuovo QE. Quanto per il fatto che il momento attuale sembra decisamente il meno opportuno per dedicarsi alla stampa di nuovi miliardi di biglietti verdi. Un po’ perché a ben vedere, come rilevato da molti, quella attuale sembra più una carenza di fiducia piuttosto che di liquidità (i capitali a disposizione delle imprese sono aumentati da tempo così come i risparmi delle famiglie). Un po’ perché nell’attuale contesto di instabilità dei mercati la mossa potrebbe trasformarsi in un tragico invito alla speculazione. E un po’, infine, perché con i tassi prossimi allo zero, una nuova immissione di denaro rischierebbe di essere sostanzialmente vana. E’ la vecchia trappola della liquidità, quel fenomeno basato sulla sostanziale incapacità della politica monetaria di sortire effetti apprezzabili che Bernanke ben conosce. E di cui certo non intende fare ulteriore esperienza.