Il presidente della Fiat John Elkan con il suo azionariato familiare coeso solo dal non spendere nelle attività industriali in particolare in Italia – visti anche i nuovi interessi finanziari asiatici – dopo aver dato l’incarico al suo ad di salvarlo con l’avventura americana da investimenti che nel mercato mondiale dell’auto, la famiglia Agnelli non è più in grado di sostenere, pensa di coprire la ritirata industriale dall’Italia scaricando le responsabilità ora sui lavoratori, ora sul Paese.

I lavoratori vengono costretti in modo improbabile  a “garantire” con l’aumento della propria fatica, con la limitazione delle libertà e con la cancellazione del contratto nazionale, piani industriali che hanno sempre bisogno da parte aziendale  di nuove e ulteriori conferme, in un gioco dell’oca che  riparte sempre dal via. E il Paese è trattato da questa Fiat e da questi Agnelli come una ex colonia che deve meritarsi investimenti e soddisfare prove, un peso per gli stessi lavoratori e i lavoratori utilizzati come scudi umani, veri e propri ostaggi di una riorganizzazione produttiva e proprietaria.

La Fiat, complice l’arrendevolezza delle classi dirigenti protese a soddisfare per abitudine e scarsa autonomia il potere della ex azienda nazionale, ha prodotto in un gioco di specchi una estraniazione dal Paese quasi che la Fiat non fosse italiana, non avesse responsabilità nella storia d’Italia, nella sua crisi anche morale e nel suo declino. Quasi che la Fiat fosse una nuova azienda appena nata, capace addirittura di proporre “nuove” classi dirigenti fino a sostenere la discesa in politica di quel Montezemolo che l’ad Marchionne considerava poco più di un fastidio nella fase di coabitazione in Fiat.

Oggi la Fiat pretende nuove leggi, vuole visionare il testo definitivo che strumentalmente e surrettiziamente il governo ha inserito nella manovra di risanamento e che con essa nulla c’entra, per decidere se investire in Italia, imponendo con una pesante moral suasion, qualcuno suggerisce “ricatto”, leggi che cambiano le condizioni  di vita, di lavoro e di libertà per i singoli lavoratori. Lo fa perché sa di aver prodotto nell’ultimo anno accordi al limite e oltre  le leggi nazionali, usando la crisi internazionale e  il debito pubblico. Ma questa Fiat, che tenta di rianimare il proprio titolo con le comparsate al meeting di Cl, nonostante i segnali di disponibilità di sindacati arrendevoli o di ministri interessati come Sacconi, che usano l’azienda per saldare vecchi conti ideologici introducendo la libertà di licenziamento, non si fida di queste disponibilità e sopratutto non si fida di se stessa, non sa se sarà in grado di mantenere gli impegni sino ad oggi solo propagandati. Con quali prodotti raddoppierà la produzione in Italia? Non certo con la Freemont messicana e con la nuova Panda che è ancora troppo poco. In quale mercato europeo, con quale mercato americano e in quanto tempo restituirà i debiti contratti per rilevare Chrysler e gli stessi debiti che Chrysler porta in dote?

Non è ancora tardi per pretendere da Fiat, dai suoi proprietari e dal suo management impegni veri, prodotti europei per l’Italia pensati nel rispetto delle leggi e dei lavoratori. Non ci servono consigli sulla libertà di sciopero, ci serve un’impresa che difenda l’Italia con nuovi prodotti italiani. E’ la Fiat che deve dare garanzie al Paese e ai lavoratori ! E il Paese che deve pretendere rispetto con un altro governo che difenda gli interessi dei cittadini italiani che lavorano.

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