Nei terribili momenti che stiamo vivendo (mentre l’esaurimento di questa fase storica si manifesta ormai con crescente evidenza), risultano a dir poco risibili le ricette mercatiste degli economisti dottrinari, fetta consistente della corporazione, per cui basterebbe liberare l’impresa dai soliti “lacci e lacciuoli” perché tutto si aggiusti: la concorrenza sgravata dagli impicci sostituirà automaticamente le vecchie imprese decotte con nuove più competitive. Pure nell’Italia al lumicino?

Più che facile, semplicistico. Esaminiamo qualche fatto per poi tirare un filo di commento. Dicono: la crescita dei Paesi di nuova industrializzazione ci trarrà fuori dalla crisi. Ma la cruda materialità dei fatti replica il contrario. Come possiamo verificare dal nostro angolo visuale. Infatti, nel traffico Far East/Italia siamo passati dai 320/330mila teus (unità di misura del trasporto containerizzato) dei primi anni Novanta a quantità che, sulla stessa tratta, superano il milione. Tuttavia, se prima l’80% dei container in arrivo ripartiva colmo di altre merci, ora il 70% di essi è costretto a compiere vuoto l’itinerario inverso. Uno squilibrio che pesa sull’economicità della catena distributiva, quale ennesimo segnale della caduta verticale in quanto a propulsività dell’intero comparto industriale; sicché i grandi operatori di settore prevedono che le post-post-panamax, le navi portacontainer da oltre 10mila teus, salteranno i nostri scali per attraccare nei porti del nord Europa, dove affluiscono in misura soddisfacente merci da trasportare in Estremo Oriente.

Appunto, il nostro sbilanciamento tra import ed export come conseguenza delle scarse capacità di offrire adeguate contropartite merceologiche. Dato reso ancor più inquietante dalla segnalazione che in questi mesi buona parte di quel 30% di container che abbiamo saputo riempire lo si è fatto con spazzatura: imballaggi plastici, carta e cartonaggi vari, che i cinesi riciclano come combustibile. In altre parole, li bruciano. Alla faccia del prodotto ad alto valore aggiunto Made in Italy!

Prima ancora di un problema economico, sintomo allarmante del cortocircuito politico di un sistema-Paese incapace di operare scelte strategiche di specializzazione. Problema che non avevamo in passato, pur in presenza degli stessi vincoli (compresi i diritti del/nel lavoro) cui ora i mercatisti imputano la responsabilità esclusiva del nostro male oscuro. Che sarebbero la causa scatenante del fatto che importiamo dalla Cina merci per 29 miliardi di euro (incremento dell’anno scorso: + 47,78%) e ne rendiamo per 8,63, a fronte dei 53,50 tedeschi; la sola spiegazione del perché nel 2010 le nostre esportazioni sono cresciute meno di quelle dei nostri partner europei: noi il 30,19%, mentre la Germania il 43,6, l’Inghilterra il 45,27 e perfino la (disastrata quasi quanto noi) Spagna il 33,14.

In due parole: analisi ridicola. Del resto, cosa vendiamo ai cinesi (spazzatura a parte)? Per lo più moda, gastronomia e vino, magari marmo e graniti, sempre meno media tecnologia; se è vero che anche nelle macchine per il tessile l’import dalla Cina l’anno scorso è aumentato del 16,5% (il nostro export è diminuito del 14,6). Un po’ ce lo siamo andati a cercare: in passato una tipica esportazione italiana verso Estremo Oriente e Usa erano le piastrelle prodotte nei distretti tipo Sassuolo. Poi abbiamo iniziato a spedire in Cina macchinari per il “gres”, cui sono andati dietro i nostri tecnici come istruttori delle manovalanze locali, alcune aziende hanno delocalizzato proprio in territorio cinese… Attualmente almeno il 50% del porcellanato nel mercato statunitense reca il marchio Made in China, mentre la spedizione di tale prodotto nel Far East è praticamente irrisoria.

Scioglieremo questo nodo scorsoio liberalizzando l’ordine dei giornalisti? Morale: il motore del progresso non è né il mercato, l’impresa o la finanza, ma la società nei suoi movimenti d’insieme. La sua capacità di orientare i fattori economici.

Il Fatto Quotidiano, 25 agosto 2011

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